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Archivio per la categoria ‘zeitgeist’

Al mai compagno D’Alema

13 Marzo 2014 Nessun commento

Mi ritrovo D’Alema in TV, mentre guardo dal mio divano di lavoratore in malattia, e mi viene in mente la puntata di “La storia siamo noi” in cui si raccontavano in modo chiaro e didascalico le responsabilità del fallimento di un progetto che avrebbe reso Malpensa, Alitalia e quindi l’Italia, uno dei centri del trasporto passeggeri europeo. Ma non fu così…solo che non ce ne ricordiamo e quando i responsabili si presentano in TV, li ascoltiamo, come se avessero qualcosa da dire.

The Day After Tomorrow

11 Luglio 2013 Nessun commento

Di seguito riporto l’editoriale del Corriere della Sera apparso l’11 luglio 2013, il giorno dopo la richiesta di sospensione dei lavori del parlamento da parte del Pdl. La richiesta di sospensione, concessa da Partito Democratico, è l’atto di protesta del Partito di Belusconi in risposta al fatto che la cassazione ha fissato la data della sentenza sul processo Mediaset.

Il giorno nero della RepubblicaAntonio Polito, Corriere della sera

Se la fissazione della data del processo a Silvio Berlusconi ha prodotto un giorno di stop dei lavori parlamentari, che accadrà il giorno della sentenza? Nonostante alla fine abbiano prevalso quelli con la testa sulle spalle, e l’Aventino minacciato da una parte del Pdl sia stato derubricato a semplice pausa di poche ore, ieri abbiamo assistito alla prova generale di ciò che può accadere al nostro Parlamento nelle prossime settimane. Ostaggio di vicende extraparlamentari, sulle quali né le Camere, né il governo e nemmeno il capo dello Stato possono alcunché. Eppure immediatamente investito, e potenzialmente dissolto, dallo tsunami politico che quelle vicende giudiziarie sono in grado di provocare. Gli attori visti ieri in scena non rassicurano sull’esito. In troppi puntano a trarre un vantaggio di parte dalla rovina comune. Quelli che nel partito di Berlusconi sfruttano la drammaticità della sua ora per acquisire benemerenze e colpire l’ala governativa. Quelli che nel Pd, per lo piu renziani, non vedono l’ora di affondare Letta magari in nome di una riscoperta purezza antiberlusconiana. E quelli che, stando all’opposizione, pensano che il loro compito sia fomentare il tanto peggio tanto meglio. Non si spiegano altrimenti la teatralità e al contempo l’incongruenza delle parole e dei gesti cui abbiamo assistito. Beppe Grillo, mentre urla che «l’Italia è un Paese in macerie» e che «non c’è più tempo», chiede come rimedio lo scioglimento del Parlamento e nuove elezioni, perché per un’altra rissa elettorale c’è sempre tempo. I suoi senatori, in un gesto forse inconsapevolmente peronista, si trasformano in descamisados togliendosi in aula la giacca e la cravatta e fischiando come allo stadio la squadra avversaria. I cosiddetti falchi del Pdl, nelle cui mani è rimasto il partito dopo che la sua parte migliore è emigrata al governo, confondono la Cassazione con un Tribunale speciale e invocano il ritorno alle urne come una nuova Resistenza. Certo, la decisione presa ieri in Parlamento di sospendere i lavori per un giorno, piccolo surrogato concesso al Pdl in rivolta per l’imminenza della sentenza Berlusconi, è fuori dal comune (anche se è prassi per i congressi di partito). Ma purtroppo è l’intera situazione in cui ci troviamo ad essere fuori dal comune, come testimonia la visita serale di Enrico Letta al Quirinale. Comunque la si veda, se ne dia la responsabilità all’imputato Berlusconi che se l’è cercata o ai magistrati che lo perseguitano, la vita e l’operatività del Parlamento e del governo sono infatti costantemente in pericolo. E questo proprio mentre l’Italia arranca, è come schiacciata dal macigno della crisi, tenta disperatamente di rialzarsi, viene di nuovo declassata. Il resto del mondo ci guarda attonito, attendendo di capire se questo grande Paese ha deciso di suicidarsi. Dal pasticcio in cui si è cacciata la politica c’è una sola via di uscita: assumersi ciascuno una responsabilità collettiva. E c’è solo una bussola: attenersi scrupolosamente alle regole dello Stato di diritto, inventate proprio per tenere separati i poteri. Stiamo camminando sul ciglio del burrone. Per favore, smettetela di spingere.] Se la fissazione della data del processo a Silvio Berlusconi ha prodotto un giorno di stop dei lavori parlamentari, che accadrà il giorno della sentenza? Nonostante alla fine abbiano prevalso quelli con la testa sulle spalle, e l’Aventino minacciato da una parte del Pdl sia stato derubricato a semplice pausa di poche ore, ieri abbiamo assistito alla prova generale di ciò che può accadere al nostro Parlamento nelle prossime settimane. Ostaggio di vicende extraparlamentari, sulle quali né le Camere, né il governo e nemmeno il capo dello Stato possono alcunché. Eppure immediatamente investito, e potenzialmente dissolto, dallo tsunami politico che quelle vicende giudiziarie sono in grado di provocare.

Gli attori visti ieri in scena non rassicurano sull’esito. In troppi puntano a trarre un vantaggio di parte dalla rovina comune. Quelli che nel partito di Berlusconi sfruttano la drammaticità della sua ora per acquisire benemerenze e colpire l’ala governativa. Quelli che nel Pd, per lo piu renziani, non vedono l’ora di affondare Letta magari in nome di una riscoperta purezza antiberlusconiana. E quelli che, stando all’opposizione, pensano che il loro compito sia fomentare il tanto peggio tanto meglio.

Non si spiegano altrimenti la teatralità e al contempo l’incongruenza delle parole e dei gesti cui abbiamo assistito. Beppe Grillo, mentre urla che «l’Italia è un Paese in macerie» e che «non c’è più tempo», chiede come rimedio lo scioglimento del Parlamento e nuove elezioni, perché per un’altra rissa elettorale c’è sempre tempo. I suoi senatori, in un gesto forse inconsapevolmente peronista, si trasformano in descamisados togliendosi in aula la giacca e la cravatta e fischiando come allo stadio la squadra avversaria. I cosiddetti falchi del Pdl, nelle cui mani è rimasto il partito dopo che la sua parte migliore è emigrata al governo, confondono la Cassazione con un Tribunale speciale e invocano il ritorno alle urne come una nuova Resistenza.

Certo, la decisione presa ieri in Parlamento di sospendere i lavori per un giorno, piccolo surrogato concesso al Pdl in rivolta per l’imminenza della sentenza Berlusconi, è fuori dal comune (anche se è prassi per i congressi di partito). Ma purtroppo è l’intera situazione in cui ci troviamo ad essere fuori dal comune, come testimonia la visita serale di Enrico Letta al Quirinale. Comunque la si veda, se ne dia la responsabilità all’imputato Berlusconi che se l’è cercata o ai magistrati che lo perseguitano, la vita e l’operatività del Parlamento e del governo sono infatti costantemente in pericolo. E questo proprio mentre l’Italia arranca, è come schiacciata dal macigno della crisi, tenta disperatamente di rialzarsi, viene di nuovo declassata. Il resto del mondo ci guarda attonito, attendendo di capire se questo grande Paese ha deciso di suicidarsi.doc0935

Dal pasticcio in cui si è cacciata la politica c’è una sola via di uscita: assumersi ciascuno una responsabilità collettiva. E c’è solo una bussola: attenersi scrupolosamente alle regole dello Stato di diritto, inventate proprio per tenere separati i poteri. Stiamo camminando sul ciglio del burrone. Per favore, smettetela di spingere.

Per cosa protesta il Pdl? Il motivo della protesta è che la cassazione ha fissato la data del processo in tempi brevi. È ovvio, che le ragioni che spingono il partito di Berlusconi alla rivolta non sono né giudiziarie (la stessa difesa di Berlusconi non contesta l’enorme evasione fiscale portata avanti dal gruppo Mediaset, ma il fatto che Berlusconi, dopo la discesa in campo, non abbia più avuto alcun ruolo nel gruppo), né tanto meno di accanimento nei confronti dell’imputato, come racconta il seguente articolo:

Processo Berlusconi-Mediaset: la Cassazione, la legge e la prassiDaniela Stasio su Il sole 24 ore

La legge è uguale per tutti, e lo è anche la prassi seguita dalla Cassazione per i processi prossimi alla prescrizione. Non poteva fare eccezione, quindi, il processo Mediaset a Silvio Berlusconi (condannato per frode fiscale a 4 anni di carcere e a 5 di interdizione dai pubblici uffici), visto che il 1° agosto scatterà la prescrizione di una delle due frodi consumate dall’ex premier.

Legge e prassi prevedono che, in questi casi di «urgenza», i termini per fissare l’udienza possano essere ridotti fino a un terzo (20 giorni invece di 30) e che, se si è a ridosso della sospensione estiva, il processo venga trattato ugualmente. Pertanto, in base a una legge del ’69 e all’articolo 169 del Codice di procedura penale nonché alle direttive annualmente impartite dal primo presidente della Cassazione, il processo Mediaset è stato fissato il 30 luglio davanti alla Sezione feriale (presidente Antonio Esposito, giudice relatore Amedeo Franco) e la difesa è stata avvisata della riduzione dei termini. Così si arriverà al verdetto prima che scatti la prescrizione, sia pure solo per una delle due frodi. Fermo restando che se la Cassazione dovesse annullare la condanna con rinvio alla Corte d’appello, sarà quest’ultima a verificare anche l’eventuale avvenuta prescrizione (sia pure parziale).

Tutto nella norma, insomma, sebbene il Pdl gridi alla «cospirazione» e all’«aberrazione». L’avvocato Franco Coppi, che affianca Niccolò Ghedini, ammette che la decisione della Corte è «formalmente corretta» ma si dice «esterrefatto» perché «non c’era ragione di fissare termini così brevi» che «incideranno sulla possibilità di difesa», costringendo gli avvocati a «una preparazione affannosa». Ghedini parla di «tempo eccezionalmente breve» e contesta il calcolo fatto dai supremi giudici perché «il primo dei due reati si prescriverebbe, valutate le sospensioni, parecchi giorni dopo la fine dei termini feriali del 15 settembre 2013, mentre l’ultima contestazione si prescriverebbe addirittura a fine settembre 2014».

Ma la ragione dell’accelerazione è solo l’imminente prescrizione. Per questa stessa ragione centinaia di processi vengono trattati dalla Cassazione con maggiore celerità. Basti solo pensare a quelli per concussione: dopo la legge Severino sull’anticorruzione (190/2012), la Corte è stata costretta addirittura a modificare la propria agenda per accorparli e anticiparli perché molti di quei processi, altrimenti, sarebbero arrivati in udienza già prescritti visto che la legge 190 ha ridotto da 15 a 10 anni la prescrizione della vecchia «concussione per induzione» diventata «induzione indebita» (nonostante questo sforzo, per alcuni non c’è stato nulla da fare). E del resto, sono centinaia i «169» – come si chiamano in gergo i casi «urgenti» – che la Cassazione manda in Procura generale con la segnalazione di «prescrizione imminente» e su cui il Pg chieda la riduzione dei termini per il giudizio.

A motivare tanta ostilità nei confronti dei giudici è una sola cosa: la paura che tutto finisca.

Per i parlamentari (Pdl e PD) la paura che cada il governo, si torni al voto e… nel Pdl, se non c’è più Berlusconi, sia finito anche il partito… nel PD, con Renzi già pronto a scattare, si rischi il repulisti e la fine politica per una generazione intera di parlamentari.

Per il Presidente Enrico Letta la paura è nel tempo: più dura il suo governo, più possibilità ha di consolidarsi e diventare “realtà” un modello di PD che ricicla per l’ennesima volta il vecchio establishment (PC, PDS, DS, cioè Dalema & Co.); Letta, di tale riesumazione, diverrebbe di conseguenza il punto focale.

Per Berlusconi… non serve spiegarlo; il suo “non intendo fare la fine di Craxi” è quantomai eloquente.

Per noi l’imminente scomparsa di Berlusconi dalla vita plitica del Paese rappresenta un’altra paura ancora. Chi voteremo? A chi affideremo le nostre speranze? Dopo vent’anni di politica incentrata attorno a lui, da destra, com’era ovvio, ma anche da sinistra, ognuno di noi si trova a vivere l’inquietudine del dopo. E dopo che Berlusconi se ne sarà andato? Per chi si sente di centrodestra finisce un sogno. E come accade sempre dopo i sogni, ci si deve svegliare e fare i conti con la realtà, che dopo un sogno di 20 anni, è molto cambiata rispetto a come la si è lasciata prima di addormentarsi. Per chi si sente di centrosinistra potrebbe sembrare una liberazione, ma in realtà, dopo vent’anni di partiti di centrosionistra che hanno posto il loro fondamento non sulle istanze della parte più debole della società, ma sulla contrapposizione a Berlusconi, la sua caduta rappresenta anche da questa parte un salto nell’ignoto. E dopo Berlusconi cosa ne sarà del PD? O per restare nella metafora del sogno: gli elettori di centrosinistra, visto che la moglie accanto a loro dormiva, hanno pensato di aprofittarne…e farsi un sonnellino pure loro. La moglie per lo meno ha sognato (un miliaridario furbetto che la corteggiava), il marito si sveglierà convinto di aver solo chiuso gli occhi…ma anche per lui 20 anni sono trascorsi.

E poi ci sarebbe la Repubblica. Ecco lei è forse l’unica a dover sperare che Berlusconi scompaia. Ma dato che è l’unica a volerlo, è probabile che alla fine debba arrendersi e a finire sia proprio lei.

Il bene del Paese

30 Aprile 2013 Nessun commento

Riporto l’editoriale di Ezio Mauro apparso oggi sul sito de La Repubblica, l’originale e reperibile a questo indirizzo.

Il Paese prima di tutto, avevamo detto qualche giorno fa. Oggi possiamo aggiungere: in particolare nei momenti di difficoltà. Ma dove sta il bene del Paese? Proviamo a ragionare, se è ancora possibile fare una discussione serena anche con chi non si riconosce nel pensiero dominante di questa primavera italiana 2013. O almeno col tentativo di usare l’emergenza politica per un cambio di stagione generale e definitivo, che trucchi i conti della piccola storia italiana di questi anni. Non voltando pagina, perché questo accade spesso. Ma riscrivendola.

Tre punti mi sembrano non controversi. 1) – L’Italia è in difficoltà, la crisi dell’economia reale sta sopravanzando il rischio finanziario rivelandosi in tutta la sua gravità per le aziende, per i lavoratori, per la coesione sociale. 2) –  Un governo è indispensabile, e chi ha detto il contrario è uno sprovveduto in linea con i populismi vari, che campano spacciando risposte semplici a problemi complessi. La Spagna proprio in questi giorni ha negoziato con Bruxelles due anni in più di tempo per il rientro del deficit, dimostrando che un esecutivo con conti e programmi alla mano può farsi ascoltare in Europa fino a bucare il muro dell’austerity dogmatica. 3) – Dopo aver sfiorato il default finanziario, il sistema ha rischiato il default istituzionale.

E questo perché le tre minoranze uscite dalle urne anche grazie ad una legge sciagurata non sono state capaci di formare una maggioranza di governo, e addirittura non sono riuscite a dare forma all’istituzione suprema, la presidenza della Repubblica. Da qui il corto-circuito che ha portato tre partiti a chiedere a Napolitano di ricandidarsi perché il parlamento era bloccato, accettando nel contempo la richiesta del capo dello Stato di impegnarsi a far nascere un governo, due mesi dopo il voto. Quindi un governo di necessità, una situazione estrema, una soluzione eccezionale fortemente contraddittoria, perché trova unite questa destra e questa sinistra, che si sono contrapposte duramente per vent’anni.

Com’è chiaro, non sono le responsabilità che devono spaventare. Ci sono parecchie cose che non solo si possono, ma si devono fare insieme tra forze politiche molto diverse (Scalfari ha ricordato Togliatti) e riguardano le regole del gioco e le sue varie forme, quindi la legge elettorale, la riduzione del numero dei parlamentari, la correzione del bicameralismo perfetto, il taglio dei costi della politica: tutte misure che potrebbero ridare efficienza alla macchina democratica, ma soprattutto potrebbero avviare un recupero di fiducia nel rapporto in crisi tra partiti, istituzioni e cittadini. Anzi, le politiche di cambiamento e di novità (come la scelta da parte di Enrico Letta del ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge) sono l’unica strada per governare la contraddizione politica di questa maggioranza, provare a superarla nei fatti e guardare avanti, ricordando che la premiership viene dal Partito democratico e deve averne il segno.

dollari_vs_giustiziaIl punto in discussione è il tentativo ormai evidente, sistematico, insistito e molto diffuso di vendere un’alleanza di emergenza come uno stato d’animo del Paese, trasformando un governo di necessità in un’opportunità culturale per rimodellare la vicenda storica di questi anni. L’operazione cambia le carte in tavola, e assume un unico punto di vista – quello della destra, con le sue convenienze – come fondamento oggettivo della nuova fase. È evidente a tutti che Berlusconi, giunto terzo alle elezioni, arriva al tavolo delle grandi intese per scelta, con un’opinione pubblica che si sente premiata, una classe dirigente che appare miracolata. Dall’altra parte, il Pd – sconfitto politicamente nel momento in cui prevaleva numericamente – arriva alla condivisione di governo per obbligo, con un’opinione pubblica contraria e frastornata, un gruppo dirigente disorientato e diviso. La sinistra vuole governare per fare poche riforme necessarie, affrontare la crisi del lavoro, rinegoziare la stretta dell’austerity con l’Europa e andare al voto. La destra vuole rilegittimarsi come forza di governo dopo il fallimento del ministero Berlusconi, vuole istituzionalizzare la carica “rivoluzionaria” che aveva in passato portandola dentro il sistema, vuole sacralizzare la figura del suo leader ripulendola dalle troppe macchie degli ultimi anni attraverso un ruolo da padre della Repubblica: senatore a vita, o presidente della convenzione per le riforme. Dunque il governo può durare finche servirà a questo scopo.

In sostanza è come se la destra dicesse al sistema: l’anomalia berlusconiana (composta dalle leggi ad personam e dal rifiuto di accettare il giudizio dei tribunali, dal conflitto di interessi, dallo strapotere economico e mediatico, da una cultura populista che intende il potere eletto dal popolo sovraordinato rispetto agli altri poteri, dunque insofferente per natura speciale ad ogni controllo) è troppo grande e troppo permanente per essere risolta. Il sistema è stremato per lo scontro senza soluzione con la presenza fissa di questa anomalia. Dunque al sistema conviene costituzionalizzarla, introiettandola: ne uscirà in qualche misura sfigurato ma definitivamente pacificato, perché a quel punto tutto troverà una sua nuova deforme coerenza. Per questo, la grande coalizione è un’occasione irripetibile, guai a non sfruttarla ben al di là del governo.

Per arrivare fin qui, al vero scopo, è necessario lavorare sul “contesto”. Ingigantire l’aura di questo governo, parlando di “pacificazione”, di uscita dalla “guerra civile”. Bisogna cioè creare un senso comune accettato che ricrei le basi del confronto politico e rinneghi la lettura di questo ventennio, sia la lettura di destra che quella di sinistra (quella centrista o liberale non conta, perché è sempre al traino della cultura dominante in quel momento). E il senso comune è quello della grande omologazione nazionale, dove si scopre all’improvviso che destra e sinistra sono uguali, le vicende di questi ultimi anni non contano più per gli uni e per gli altri, non hanno lasciato segni nella storia, nella cultura istituzionale, nella piccola vicenda dei partiti, nel loro rapporto che pure è stato per lunghi tratti vivo, vitale e addirittura vivace con le opinioni pubbliche di base.

Ne discendono norme nuove di comportamento, inviti insistenti. Valga per tutti “il principio di realtà”, quindi non le culture di riferimento, gli interessi legittimi che si rappresentano, addirittura gli ideali diversi. No, conta solo la “realtà”, cioè il dato di oggi che prevale sul futuro e sulla storia italiana di questi anni. La politica si conformi. I giornali cambino addirittura tono, abbassando la voce, come se ci fosse un tono prefissato secondo le stagioni di governo, e i toni non fossero ogni volta la reazione a precise azioni dei protagonisti, dichiarazioni, proclami. Il risultato da ottenere è evidente: una grande amnistia culturale deve scendere sul ventennio, non lo si deve più ricordare per non giudicarlo, tutto è alle spalle, tutto si confonde, gli statisti non sono a targhe alterne ma in servizio permanente effettivo.

E qui, il nuovo senso comune ben coltivato porterà all’esito finale di tutta l’operazione: la fine del giudizio penale ancora in corso per definitiva autoconsunzione, in quanto il nuovo clima dominante di conciliazione governante prevarrà sul clima che pretendeva giustizia, o sosteneva per anni la pretesa di volere addirittura la legge uguale per tutti. Giuliano Ferrara lo ha detto lucidamente: la strada maestra per Berlusconi è spingere per la grande politica, “obliterando in questo modo ogni valore morale delle condanne che lo riguardano”. Vale a dire che il nuovo senso comune spodesterà quello precedente, vivo per anni, maggioritario o di minoranza secondo le fase, e tuttavia vivo. Alla fine si presenterà tutto questo come una vittoria della politica, mentre è un’altra cosa. L’abuso semantico e politico, dunque culturale, del concetto di governo di salute pubblica si estenderà prosaicamente alla salute privata di qualcuno. E quando questo clima sarà instaurato, potranno venire come al solito le norme ad personam, visto che a quel punto non sembreranno più un vulnus, ma un esito naturale e accettato.

Nella lettura a reti unificate che i giornali danno della grande intesa, si vedono tutti i segni di questa costruzione complessa che si richiama alla “realtà”, ma che configura un’iper-realtà politica di comodo, addirittura ideologica. È una lettura dalla quale ci discostiamo. Si possono – si devono – fare le cose che servono al Paese, ma salvando il vero principio di realtà, che consiste nel preservare le diverse “visioni sostantive” del Paese, le identità distinte di destra e sinistra, le letture degli ultimi vent’anni che sono state fatte in forme tutt’affatto difformi nei due campi, le due diverse idee dell’Italia. Qui c’è la base di un’onesta responsabilità condivisa, proprio perché qui c’è la coscienza dei limiti dell’emergenza, il rispetto delle pubbliche opinioni, la consapevolezza del fatto che il Paese ha bisogno di una maggioranza e di una minoranza, a cui si deve tornare appena i nodi principali sono stati sciolti. Qui, nelle differenze occidentali, nel rispetto onesto delle diversità, sta la base del futuro scontro elettorale, della ripartenza del Paese e del confronto democratico. Ecco perché tutto questo ci sta a cuore. Perché non tutto è emergenza, e nelle differenze culturali sta il bene del Paese.

Ascanio Celestini: “Siamo contro a prescindere. Nessuno ci rappresenta”

22 Marzo 2013 Nessun commento

Riporto per intero un articolo apparso su “Il fatto Quotidano”. L’attore, a poche settimane dal suo nuovo spettacolo teatrale ‘Discorso alla nazione’.

Ascanio Celestini usa le parole come un muratore fa con le pietre. Messe una sull’altra, oppure lasciate a terra, tenute strette da un bisogno, da un sogno, da una bestemmia, realizzano un pensiero, ci conducono al fondo dei nostri dubbi. Vive in una borgata romana, “dieci centimetri sotto l’appartamento dove sono nato. La mia bottega è quella di mio padre, e mia moglie è figlia del nostro ex portiere. Ci stiamo costruendo una casa nuova nella parallela della via dove abito. Tutta la mia vita in cento passi o poco più”. Dalla borgata la crisi si vede più nera: “Cambiano i volti, sono facce scure, mediamente sole, e pronunciano parole violente. Frequento il bar e lì guardo e ascolto”.celestini-interna-nuova

La violenza ci difende dalla paura, non ti pare? “Dalla solitudine direi. A Morena, il nome della mia borgata appena dietro Ciampino, non c’è abitante che non abbia sgobbato una vita. Uno, due, tre lavori insieme. Hanno la lavatrice (la lavastoviglie non tutti), ma due o tre televisori e il computer e la verandina e il sottotetto. Hanno il salotto e la cucina Scavolini. Ma sono soli. Si sono costruiti una solitudine con grande fatica. E vedono quel minimo senso di benessere sfuggirgli di mano, andarsene via”.

Soli e disperati. “Ti ricordi trent’anni fa cos’era un partito? La Dc o il Pci? Se io e te eravamo iscritti al partito, o solo simpatizzanti o anche semplici elettori, avevamo punti di vista comuni. E il nostro punto di vista era in qualche modo simile a quello del segretario del partito. Era una comunanza di sguardo: guardavamo lo stesso orizzonte. Ed eravamo felici di esserlo”. Era la comunione. “Il mio destino è il tuo, la mia pena la tua, la mia felicità simile a quella che provi tu. La mia vita è un po’ la tua”. Oggi è l’opposto. “Oggi godo tanto di più quanto più inveisco contro di te, mi sento distante da te e ti maledico. Altro che leader, sei lontano, devi sparire, mi porti solo guai. Sei un incompetente, un truffatore. E rubi, è il minimo che ti dico”.

La crisi sconforta, e i conti li stanno pagando gli innocenti. Nessuno porta responsabilità quando invece c’è. Non è che si diventi cattivi perché l’umore cambia. “Descrivo uno stato d’animo. Vado al bar e sento solo dire: in galera! In carcere gli extracomunitari che pisciano davanti al mio portone; in carcere naturalmente Berlusconi e in carcere pure tu. Siamo contro, e a prescindere e costruiamo questa condizione di avversione perché al fondo abbiamo l’idea che ormai nessuno più ci possa rappresentare”. Ci possa aiutare o anche solo rappresentare? “C’è bisogno di una guida? Non c’è bisogno. Quelli sono incompetenti, no? Sai perché ha vinto Grillo? Perché il suo movimento, o non movimento, può rinegoziare ogni giorno il suo punto di vista. Non è ancorato a nessuna idea”.

Non sembra ti piaccia. “Non mi piace, non mi ci ritrovo, ma capisco. Lui parla a quella piccola borghesia che sta perdendo la lavatrice, il sottotetto, l’automobile, i contributi previdenziali. Parla ai miei coinquilini, alla mia borgata. È gente impaurita (e io dico giustamente). Mica senti Grillo discettare degli immigrati, o dei poveri che non hanno più nulla? Sono invisibili e non li vede neanche lui. Malati terminali della società”. Quando una vita si sbriciola all’improvviso, non c’è futuro e nemmeno una speranza, persino la precarietà diventa un bene di lusso che pochi possono detenere. Come puoi chiedere uno sguardo comune? “La legge del formicaio sovrasta ogni formica. È il sistema che è imploso, ma non siamo in grado di riuscire a individuarne un altro. Sono stato ad Auschwitz e Shlomo Venezia mi ha raccontato la sua drammatica avventura. Internato nel lager era chiamato a condurre i prigionieri alle docce chimiche voce: “Shlomo! Shlomo! È suo cugino Leone che lo riconosce e lo chiama. Si avvicina, gli chiede: perché devo morire? Puoi fare qualcosa tu? Shlomo non sa fare altro che andare dal militare tedesco e gli chiede il favore di salvarlo. Il tedesco risponde: e che posso farci io? L’orrore di questa scena si reggeva su un sistema collaudato di decisione e di comando. Al tedesco non competeva valutare”. Non mi compete, non è mio compito, chiami quell’ufficio.

E’ il medesimo paradigma della nostra burocrazia: nessuno è chiamato a rendere conto. “La vita è responsabilità. E invece stiamo facendo appassire la nostra vita, il nostro futuro nell’eterna assoluzione di noi stessi. La colpa è sempre degli altri: di chi è al governo o al municipio, della dottoressa dell’Asl, del vigile urbano. La colpa è del geometra. Siamo poveri per colpa degli altri, stiamo male per colpa degli altri. Colpa loro: la scelta più agevole per un ignavo. L’indice puntato. Sono gesti che si ripetono davanti ai miei occhi e parole che risuonano come fosse un sottofondo musicale. E invece è sempre mia la responsabilità”. Tra un po’ di settimane inauguri a teatro il tuo Discorso alla nazione, anche tu con una soluzione in tasca: “C’è un paese che sta lentamente scivolando nella guerra civile. Non tutti se ne accorgono. Un tizio si candida a fare il dittatore, dopotutto è meglio un dittatore che la guerra civile. E dopotutto la gente pensa di sì”.

di Antonello Caporale
Da Il Fatto Quotidiano del 22 marzo 2013

Dobbiamo difendere le nostre zanzare

6 Agosto 2011 Nessun commento

Il sindaco di Cittadella e parlamentare della Lega Nord on. Massimo Bitonci ha emesso un’ordinanza per vietare i Kebab nel suo comune: «non sono alimenti che fanno parte della nostra tradizione e della nostra identità». Vietato aprire locali sia nel centro storico che nelle frazioni. (vedi articolo su Il Mattindo di Padova)

Giusto, giusto, giusto!!!

Ma questo dev’essere solo l’inizio. Bisogna vietare anche l’uso del pomodoro, frutto plurisperme dal caratteristico colore rosso. La data del suo arrivo in Europa è il 1540 quando lo spagnolo Hernán Cortés rientrò in patria e ne portò gli esemplari e basta aprire un banale ricettario per rendersi conto di come abbia invaso le cucina nostrana. E ciò deve valere anche per tutti gli altri prodotti un tempo sconosciuti come il mais, il cacao, i peperoni, le zucche, le patate e i fagioli, in uso dalle popolazioni native americane e importati dagli spagnoli. Basta. Devono essere vietati. Dobbiamo bandire il loro consumo e ci devono essere multe salate per chiunque li detenga illegalmente.

Vanno vietate la mozzarella e con essa tutte le pizzerie “La Bella Napoli” aperte da qualche meridionale in odore di camorra. Ciò deve avvenire a meno che non si scopra (1) che la pizza altro non è che una focaccia, tipico prodotto della pedemontana veneta. In tal caso il locale pizzeria dovrà mutare denominazione da “La Bella Napoli” in “La Bella Montanara”.

Ovviamente ogni sacrosanta norma volta a vietare il Kebab va estesa anche ai famigerati McDonalds, anch’essi espressione di altra cultura e rappresentanti di uno stile alimentare assolutamnte erstraneo alla nostra tradizione culinaria.

Dalla lista nera, sia ben chiaro, non deve mancare neppure l’arrogante piadina, di origine bolscevico-romaglola. Anche per la sua distribuzione non vengono garantite le più comuni norme igieniche, oltre al fatto ovvio – ma non per questo di poco conto – della sua origine subveneta.

Ma se anche riuscissimo nella nobile impresa di far sloggiare dalle nostre terre oltre al Kebab anche il pomodoro, il mais, le melanzane, la mozzarella, gli hamburger e l’odiosa piadina, non potremmo ancora dirci liberi. Il vero male, la vera invasione, il simbolo del venir meno della nostra cultura e delle nostre tradizioni è la zanzara tigre.

Questa è la bataglia di civiltà. Questo è la guerra da combattere. E noi chiediamo al Sindaco e Onorevole Massimo Bitonci di farsi paladino di questa santa crociata. La zanzara tigre va vietata e bandita dalle nostre terre.

Una volta, quando c’erano solo le zanzare nostrane si stava meglio. Il ciclo delle cose era rispettato. Ci si divideva lo spazio della giornata: a noi le ore di sole a loro la notte; nel rispetto delle più banali leggi della natura. Queste zanzare così dette “tigre”, al contrario, si fanno beffa non solo delle leggi naturali, ma anche del buon senso che le vuole insetti notturni. E poi, se è vero che anche le zanzre nostrane pungevano, va ricordato che le loro puntore facevano parte del ciclo dell’estate. Qui invece si sta mettendo in gioco la nostra stessa identità; quelle che erano le nostre tradizioni: la zanzara nelle sere d’estate è un prodotto tipico che va tutelato. Una tradizione lasciataci dai nostri padri che non va dispersa.

Ma queste nuove zanzare non hanno rispetto di niente. Delinquono aggredendo in pieno giorno donne e bambini nell’indifferenza totale delle istituzioni. Quelle che un tempo erano le pozze d’acqua stagnante dove deponevano le zanzare nostrane, ora sono diventate bassifondi albergati da queste nuove venute; e il risultato è che per le nostre zanzare non ci sono più pozzanghere e stagni dove crescere le loro larvette.

Dove andremo a finire di questo passo?

C’è solo una cosa da fare. Vietare i nostri territori alle zanzare tigre. Noi non siamo contro la biodiversità, ma bisogna rispettare la storia. Le zanzare che servono devono poter entrare, quelle che non servono restino nel loro habitat. Non dobbiamo lasciare che ci invadano. Non possiamo permettere che si prendano tutte le pozzanghere. Le pozzanghere devono andare prima alle zanzare nostrane, e poi, se ne avanzano, a quelle straniere.

Un’ultima cosa: probabilmente qualche cattocomunista ci accuserà di zanzarrismo e di tigrofobia. Ma noi non abbiamo paura di queste menzogne; perché noi stiamo in mezzo al popolo, noi ascoltiamo i bisogni e diamo risposte alla nostra gente.

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(1) Il Comune di CIttadella potrebbe farsi carico di commissionare una ricerca al fine di dimostrare l’originalità padana della pizza e smentire così il volgare pensiero che la crede nata sotto il Vesuvio.

Comitato di Liberazione Nazionale

15 Dicembre 2010 3 commenti

Come vedete pubblico quella che è stata la bandiera del Comitato di Liberazione Nazionale. Lo faccio in assonanza con quanto è avvenuto ieri nei due rami del parlamento. Dopo questa ennesima dimostrazione del potere immenso del Presidente del Consiglio, sostengo che l’unica cosa per liberarci del tiranno sia una riedizione del Comitato di Liberazione Nazionale, come quello che resse la resistenza contro il nazzifascismo. Era composto da democristiani, comunisti, demolaburisti, liberali, azionisti e socialisti, tutti assieme.

Essi compresero che il pericolo della tirannia veniva prima delle differenti visioni politiche e che era fondamentale fare fronte comune per liberare l’Italia. Poi ognuno avrebbe fatto la sua strada, ma prima bisognava porre le basi della democrazia.

Oggi la democrazia è sopita e annichilita da una persona che utilizza l’immenso potere derivatogli da un altrettanto enorme conflitto di interessi e da un dominio che negli ultimi quindici anni ha consolidato sulle istituzioni che governano questo Paese. Questa persona non è sola, vi è una profonda connivenza di gruppi e singoli che hanno costruito fortune e potere alla corte di questo uomo.

Il parlamento ieri ha mostrato che non ha la forza di sconfiggere il despota che lo opprime. Se è così no lasciamogli altro tempo, tempo che – ringraziamo per l’ennesima volta il Presidente Napolitano – gli è stato concesso per mettere in essere un simulacro di maggioranza, qual’è quella che ieri abbiamo visto uscire dalla conta della Camera.

Andiamo subito al voto con un chiaro programma: ridare dignità alle istituzioni democratiche. Una nuova legge elettorale che restituisca ai cittadini la scelta dei candidati e capace di rispecchiare il più possibile questa scelta nel parlamento; una legge che metta fine per sempre al conflitto di interessi, non per Berlusconi, ma per chiunque altro possa abusarne; una legge che ponga la legalità come cardine dell’economia e che si riprometta di combattere le mafie con questa strategia. Fatto ciò si torni a votare, si riaprano i giochi tra destra e sinistra e si torni ad una politica di governo.

Oggi ci vuole lo stesso coraggio di 66 anni fa. Certo, i nostri nonni lo fecero nel finire di un conflitto mondiale che aveva indebolito il regime. Allora, come oggi, se gli Italiani avessero votato e se si fosse chiesto loro di decidere tra Partito Nazionale Fascista e CLN, avrebbero votato per il primo. Chi lo può dire!?

I partiti che diedero vita alla Repubblica Italiana scelsero la via della resistenza, divennero partigiani, cioè faziosi, scelsero di stare dalla parte della lotta alla tirannia, che in un contesto di guerra e di occupazione divenne lotta armata.

Oggi non siamo in guerra, e neppure siamo occupati da un nemico straniero, ma non per questo viene meno l’anelito al resistere, al fare fronte comune contro il tiranno.

Intendo resistere, voglio essere partigiano. Chiedo un CLN da Berlusconi e mi adopererò in ogni modo per sostenerlo e farlo prevalere.

Una mattina mi son svegliato,
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
Una mattina mi son svegliato
e ho trovato l’invasor.

O partigiano, portami via,
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
O partigiano, portami via,
ché mi sento di morir.

E se io muoio da partigiano,
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
E se io muoio da partigiano,
tu mi devi seppellir.

E seppellire (Mi porterai) lassù in (sulla) montagna,
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
E seppellire (Mi porterai) lassù in (sulla) montagna
sotto l’ombra di un bel fior.

E (Tutte) le genti che passeranno
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
E (Tutte) le genti che passeranno
Mi diranno «Che bel fior!»

«È questo il fiore del partigiano»,
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
«È questo il fiore del partigiano
morto per la libertà!»

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Speranza

23 Novembre 2010 1 commento

Cosa significa essere giovani? Semplice, significa vivere quel periodo della vita che sta tra l’età dell’infanzia e l’età adulta. La nostra tendenza a semplificare le cose ci porterebbe subito a farne una questione di età, e di conseguenza a stabilire quali sono gli anni della fanciullezza, quelli della gioventù, quelli della maturità ed infine quelli della vecchiaia. Dicevo che saremmo estremamente semplicistici a ridurre il tema ad una questione di periodi temporali; anzi, direi che ci stiamo sbagliando, perché stiamo mettendo assieme cose che assieme non vanno. Il primo problema è accettare che la nostra misura di quella cosa che chiamiamo tempo è una pura invenzione. Gli anni, i minuti, i secoli, ecc. non esistono, se non come convenzioni umane.

Se prendiamo a modello la teoria darwiniana la presenza umana sulla terra è un fatto accidentale. Nell’economia della natura la presenza umana non è un punto di arrivo della vita, il culmine del processo evolutivo, ma solamente una delle tante forme che essa ha assunto. Per la natura ciò che sembra contare è il perpetrarsi della vita (organica), non quindi della vita umana, ma semplicemente della vita. Se domani la specie umana dovesse scomparire a causa di un virus o di un batterio, sarebbe il trionfo della vita. La verità sul come l’uomo sia comparso sulla terra, se creato da Dio o disceso da un primate, non è la vera questione che ha opposto Darwin ai suoi detrattori, ma il ruolo dell’uomo nel nostro mondo. Se la Bibbia contenga o meno una descrizione puntuale degli eventi che hanno dato inizio alla vita, è questione collaterale. Il vero problema, inquietante per la nostra idea antropocentrica dell’universo, è che la teoria dell’evoluzione descrive un mondo in cui l’uomo c’è per caso, potrebbe non esserci mai stato, e potrebbe non esserci più. La prima cosa a cadere è l’idea di progresso, e con esso di tutti i concetti correlati: avanzamento, sviluppo, miglioramento, l’idea stessa di civiltà cambia di significato. Detto come lo direbbero i filosofi, siamo accidente.

Dire che l’uomo è accidente significa demolire una serie di preconcetti su cui si basa buona parte del nostro approccio all’esistenza. Ma perché parlo di esistenza? Una visione antropocentrica dell’universo, che tende cioè al leggere ogni fatto e avvenimento in funzione dell’esistenza umana, fornisce ad ogni uomo una finalità eteronoma al proprio esistere. In questa prospettiva l’uomo è fine, è senso, è verso, è valore, è significato per sua stessa natura. Egli esiste come compimento di un cammino che ha portato a lui e come tappa (fondamentale) di un processo che non può che mirare a qualcosa di migliore.

Se accidente, invece, l’uomo si trova costretto a dover dare e trovare un senso, un fine, una spiegazione, a dare un valore e un significato al proprio esistere. Non può contare su una ragione al di fuori di sé nella quale rifugiarsi, ma deve darsi il proprio senso. Addirittura l’essere accidente mette in discussione l’idea stessa che ci debba essere un senso, dato che l’esistenza della specie umana, e tanto più quella del singolo, non è che un caso fra i molti possibili. E così l’uomo moderno, se anche dovesse trovare un proprio senso, questo non potrebbe che valere per per il singolo, dato che sarebbe impensabile l’estenderlo al resto dell’umanità.

Prima l’uomo cercava il suo posto nel cammino dell’umanità. E ora che l’umanità non va più da nessuna parte? Se qualcuno crede di dover avere una meta, un posto da raggiungere, non potrà che andarci solo; senza sperare di trovare sentieri già tracciati e senza poterne tracciare alcuno; senza il racconto di una terra promessa che lo aiuti a riconoscerne i tratti e senza le parole per poterla un giorno raccontare.

Quando Gesù scelse gli ultimi

28 Agosto 2010 Nessun commento

Torno a scrivere dopo alcuni mesi e provo a riallacciarmi al tema lasciato in sospeso, appunto quello degli ultimi e del che cosa significa stare da quella parte. Nel post precedente (vedi) abbiamo visto la sostanziale diversità di vedute tra Enrico Berlinguer e Piero Fassino, tra il vecchio Partito Comunista Italiano e i Democratici di Sinistra, ora PD.

Il tema dell’attenzione agli “ultimi” è centrale nella costituzione di una società che vuole dirsi giusta. L’argomento non è frutto dell’albero marxista, ma è profondamente radicato nella coltura cristiana. Gesù nel vangelo è molto chiaro sugli ultimi, affermando che essi sarebbero stati la sua presenza viva e continuativa. «Signore, quando ti abbiamo visto? … ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt. 25, 31-46). Sembra proprio che Gesù suggerisca di stare con gli ultimi (gli affamati, gli assetati, i nudi, i forestieri, i carcerati, ecc.) se si vuol essere certi di stare con lui. Ne consegue una cosa molto semplice, cioè che il cristiano è, o dovrebbe essere, colui che sta con l’ultimo, che si accompagna ad esso. Non solo, Gesù in più occasioni ha esplicitamente frequentato prostitute, esattori, lebbrosi, ecc. tutte frequentazioni che al suo tempo erano considerate riprovevoli e scandalose.

Siccome il vangelo viene letto in Chiesa tutti i giorni (quasi ognuno di noi ne possiede almeno una copia in casa; gli argomenti di catechismo sono diventati parte del bagaglio culturale di ciascuno di noi), diventa facile rimanere perplessi difronte ai comportamenti e alle affermazioni di certi prelati. Ve ne riporto due, una di un vescovo italiano, l’altra di uno austriaco.

L’italiano è vescovo emerito di Otranto, mons. Vincenzo Franco e dice: «Non darei la comunione a Vendola perché ostenta la sua condizione perversa e malata di omosessuale praticante. A questa gente come lui, un gran furbacchione che specula sulla sua presunta vicinanza alla Chiesa, i vescovi e i sacerdoti sappiano dare un bel calcio nel sedere. Se muore un gay certamente me ne dolgo e prego per lui, ma non posso celebrare una messa funebre per la semplicissima ragione che è morto senza pentimento, senza cambio di vita e da pubblico peccatore, pietra di scandalo. Il Vaticano spesso tace su questioni importanti dando un’idea di indulgenza a buon mercato (vedi anche).

Il secondo è Vescovo ausiliario di Salisburgo, Andreas Laun, che in una pubblicazione recente scrive: «La Love Parade e la partecipazione ad essa, a prescindere dalla sua immagine ripugnante, costituiscono una sorta di ribellione contro la Creazione e contro l’ordine divino, sono un peccato e un invito al peccato […] ci si rifiuta di ammettere che la Love Parade potrebbe anche avere a che fare con il peccato e, di conseguenza, anche con un Dio che giudica e punisce (vedi qui.)». A provare a cogliere quel che scrive, si direbbe che il Vescovo pensa che chi ha partecipato alla manifestazione, poi trasformatasi in tragedia, di Duisburg stesse commettendo peccato e che Dio abbia voluto punirlo spingendolo sotto il tunnel. Lo so, è aberrante!

Non provo neppure ad accennare alla questione dei preti pedofili e dell’omertà che alcuni Vescovi hanno praticato, sarebbe troppo facile, e poi non è attinente all’argomento che trattiamo, cioè gli ultimi e chi se ne fa portavoce. Mi viene da fare una battuta, che da poi il titolo a questo post: a sentire certi ecclesiastici vien proprio da pensare che Gesù abbia scelto gli ultimi, ma nel senso dei “peggiori”.

Dagli uomini di Chiesa purtroppo (1) ci aspettiamo sempre parole di misericordia, e soprattutto atti di perdono. Affido a don Milani la critica a questa spiccata voglia di dire la loro che i vescovi e i cardinali sovente manifestano. È un po’ lungo, ma ne vale la pena!

[…] Criticheremo i nostri vescovi perché vogliamo loro bene. Vogliamo il loro bene, cioè che diventino migliori, più informati, più seri, più umili. Nessun vescovo può vantarsi di non aver nulla da imparare. Ne ha bisogno come tutti noi. Forse più di tutti noi per la responsabilità maggiore che porta e per l’isolamento in cui la carica stessa lo costringe. E non è superbia voler insegnare al vescovo perché cercheremo ognuno di parlargli di quelle cose di cui noi abbiamo esperienza diretta e lui nessuna. L’ultimo parroco di montagna conosce il proprio popolo, il vescovo quel popolo non lo conosce. L’ultimo garzone di pecoraio può dar notizie sulla condizione operaia rabbrividire dieci vescovi non uno. L’ultimo converso della Certosa può aver più rapporto con Dio che non il vescovo indaffaratissimo. E il vescovo, a sua volta, ha un campo dove può trattarci tutti come scolaretti. Ed è il Sacramento che porta e quelli che può dare. In  questo campo non possiamo che presentarci a lui che in ginocchio. In tutti gli altri ci presenteremo in piedi. Talvolta anche seduti su cattedre più alte della sua. Quelle in cui Dio ha posto noi e non lui. L’ultimo di noi ne ha almeno una di queste cattedre e il vescovo davanti a lui come uno scolaretto. E qualche volta, credimi, c’è proprio bisogno di trattarlo così! Non è forse come un bambino un cardinale che ci propone ad esempio edificante un regime come quello spagnolo (2)? Non c’è neanche da arrabbiarsi con lui. Diciamogli piuttosto bonariamente che non esca dal suo campo specifico, che non pretenda di insegnarci cose su cui non ha nessuna competenza. Non l’ha di fatto e non l’ha di diritto. Ne riparli quando avrà studiato meglio la storia, visto più cose, meditato più a fondo, quando Dio stesso gliene avrà dato grazia di stato. Oppure non ne parli mai. Non è da lui che vogliamo sapere quale sia il tenore di vita degli operai spagnoli. Sono notizie che chiederemo ai tecnici. DI lui in questo campo non abbiamo stima. Lo abbiamo anzi sperimentato uomo poco informato e poco serio.

Leggiamo ora un altro episodio. L’ho trovato su una rivista seria, è circostanziato e firmato, non ho dunque motivo di ritenere che sia inventato:

«In uno scopartimento di prima classe del direttissimo Roma-Ancona in partenza da Roma alle 16,37 del 3 ottobre 1958 sedevano un vescovo e due altri religiosi al suo seguito. Il posto accanto al vescovo era occupato da una cartella. Un viaggiatore rimasto in piedi ben per due volte ha chiesto garbatamente se il posto era occupato e i religiosi hanno risposto di sì. Non era vero. Era un’occupazione abusiva fatta col solo scopo di lasciare il vescovo più comodo. Il controllore avrebbe voluto verbalizzare, ma il viaggiatore rimasto in piedi, pro bono pacis, ha pregato di lasciar correre e la cosa è finita così» (“Il Ponte” 1958 pag. 1350).

Ti pare inverosimile? A me no. Siamo di nuovo davanti ad un ragazzo. L’altro pretendeva di insegnare cose che ancora non conosce. Questo ruba 3450 lire e poi rimedia con una bugia e con tutto questo non s’accorge d’aver peccato. Gli pare anzi, con un alone di 50 centesimi di rispettabilità a destra e a manca del suo sedere, d’aver reso omaggio al Carattere Sacro della sua persona. Ha vissuto mezzo secolo di storia ed è già giunto a votare Democrazia Cristiana ma non sa ancora che democrazia è uguaglianza di diritti. È nato cento anni dopo la Rivoluzione Francese e non sì è ancor accorto che quel germe è fiorito, che ha mutato le nostre ex pecorelle, le ha rese non più pecorelle soltanto, ma cittadini: gente che si vuol rendere conto e che vuol essere convinta.

Eppure tutta questa lezione della storia che egli non ha preso è lezione di Dio, perché  è Dio che disegna la storia per nostro ravvedimento e affinamento. E l’hanno inteso perfino tanti laici cattolici. Quelli per esempio che sono stati tredici anni al potere in Italia e non si sono sognati di includere nel regolamento ferroviario privilegi per i vescovi. Non l’hanno fatto perché erano oramai abituati a un sentimento più alto e interiore della dignità vescovile. Qualcosa che è tanto più alta quanto più è vicina, tanto più piccina quanto più pretende un piedistallo che la storia ormai le ha negato. E quello di Bologna che mette a lutto per un mese tutte le chiese della diocesi per un fatto come quello di Prato (3)? E quello stesso di Prato che confronta se stesso con i martiri cinesi? Non sono forse tutti uomini che hanno perso il senso delle proporzioni? E a chi mai può succedere questa disgrazia immensa se non a chi non ha più accanto la mamma che sappia, quando è l’ora, dargli uno scapaccione oppure a chi non ha più intorno dei figlioli coraggiosi che sappiano raccontargli in faccia ciò che dice la gente?

Vedi dunque che non e’ sdegno per i vescovi che occorre, ma per noi stessi, figlioli vili e egoisti che abbiamo amato più la nostra pace che il bene del nostro padre e della nostra Chiesa.

Fermiamoci dunque un poco in esame di coscienza. Potevano quegli infelici saper qualcosa sul mondo che li circonda e su se stessi? C’è qualcuno che li corregge? Abbiamo mai provato a parlar loro francamente così come si parlerebbe al nostro figliolo colto in fallo? No, via, bisogna confessarlo, nessuno di noi si è curato di educare il suo vescovo. E se tanti vescovi vengon su come li vediamo, sicuri di sè, saputelli, superbi, ignoranti, enfants gâtés, come potremo volerne male a loro noi che non abbiamo fatto nulla per tendere loro una mano e riportarli al mondo d’oggi e all’umiltà cristiana e alla giusta gerarchia dei valori? E questo lor essere così non è per la Chiesa un male molto più grande di quanto non lo potrà essere quel turbamento che in qualche animo debole potran fare le critiche? È meglio conservare il piedistallo alto nell’illusione di coprire un po’ alla meglio la vuotezza dei vescovi o è meglio buttar giù il piedistallo e ottenere, per mezzo di un po’ di critica, vescovi capaci di non dire sciocchezze e in più splendenti di quell’umiltà che è virtù cristiana e quindi in nessun modo disdicevole in un vescovo?

La vita di un vescovo! Io ne so poco, ma me la posso immaginare perché conosco qualche sacerdote importante e anche qualche grosso militare e qualche grosso primario di ospedale. Parallelo al crescendo di importanza un crescendo di isolamento. In presenza a lui i giudizi andavano diventando ogni giorno più prudenti e più chiusi. Per esempio, chi pensava che il Papa facesse a mezzo con la Confindustria, lo diceva con scherno impertinente al povero seminarista indifeso. Lo diceva in forma già più attenuata e indiretta al giovane cappellano. Lo diceva solo di lontano al parroco di campagna, padre ancora abbordabile, ma già autorevole personaggio. Non lo diceva per nulla a monsignore parroco di città, amico di un mucchio di persone influenti e molto più potente egli stesso che non il collocatore comunale. Non lo dirà mai al suo vescovo che viene in visita una volta ogni cinque anni e che si può vedere solo dopo molta anticamera in una sala imponente, imponente lui stesso per età, per carica, per grazia. E allora, quando quel vescovo passando per le strade vede sui muri scritte irrispettose per il papa (ma le vede?), non ha elementi per giudicare se siano opera di mestatori estranei senza rispondenza nel cuore degli operai o se siano invece intima convinzione di tanti e che ha avuto esca in errori nostri di cui bisogna correggersi.

Il vescovo che organizza una manifestazione mariana con elicotteri, non ha modo di valutare se questa forma di devozione sdegna o commuove.

Va in visita e non incontra che cattolici o comunisti travestiti da cattolici. Gente comunque che non lo critica, che non si permette di insegnargli nulla. Lo dico senza malanimo. Siamo tutti eguali. Anch’io faccio così nove volte su dieci. Non vien voglia di dire al vescovo ciò che si pensa. È più comodo trattarlo coi soliti dorati guanti di menzogna che danno il modo a lui e a noi di vivere senza seccature. Ed egli intanto cresce e matura e invecchia senza crescere né maturare né invecchiare.

Passa per il mondo senza toccarlo. Non abbastanza alto per essere illuminato dal Cielo. Non abbastanza basso per insozzarsi la veste o per imparare qualcosa. Fa errori puerili, s’intende di tutto, giudica la storia, la politica, l’economia, le vertenze sindacali, il popolo con la beata incoscienza di un infante, con l’innocente pretenziosità del generale di armata o del contadino di montagna. È appunto come il generale di armata e come il contadino di montagna un uomo cui nessuno fa scuola. Un infelice. E tanto più è un infelice per il fatto che nel frattempo perfino i laici cattolici hanno aperto un po’ di occhi. Loro che il muro di incenso non proteggeva dai morsi della storia.

E come è tragico e ingiusto che il Pastore sia rimasto indietro alle pecore! E come potremo non reagire a questo fatto assurdo? Il rispetto? Tacere non è rispetto. È dare una spallucciata dopo aver visto degli infelici che non sanno vivere, gente in mare che non sa nuotare. Disinteressarsi del prossimo è egoismo. Disinteressarsi dell’educazione di fratelli che hanno in mano tanta parte della Chiesa è disinteressarsi della Chiesa! Meglio essere irrispettosi che indifferenti davanti a un fatto così serio. Dunque quel viaggiatore ha fatto bene a provocare quell’incidente e a pubblicarlo. Povero untorello che diffonde la peste dell’anticlericalismo, (quando dice il vero) serve più la nostra Chiesa che la sua. E bisognerebbe ringraziarlo o meglio passargli innanzi ed essere capaci noi dell’esame della nostra coscienza più di lui che ce l’esamina malevolmente. E come vorrei saper dare a questo mio articolo un accento così accorato che nessun malintenzionato potesse dire di me che calco le orme dei nemici della Chiesa! E come vorrei far capire che la stessa notiziola identica, scritta con le identiche parole, quand’è sul Ponte è cattiveria distruttrice, quand’è in bocca nostra è amore appassionato per una Chiesa in cui viviamo, da cui non ci siamo mai staccati neppure in prove durissime, una Chiesa che vogliamo migliore e non distrutta. E quale mai interesse se non di paradiso ci può far stare con lei dopo le figure che ci ha fatto fare? E come dunque si può sospettare i nostri atti?

Ma torniamo all’educazione dei vescovi. Dopo la critica la miglior forma di educazione che possiamo dar loro è di informarli. Le informazioni a un vescovo da dove credi che arrivino? Credi che abbia un apposito servizio di telescriventi che lo colleghi col Vaticano e in Vaticano a sua volta col mondo intero? Non l’ha. Oppure credi che abbia un filo di comunicazione diretta con lo Spirito Santo? Non l’ha neanche il Papa. Lo Spirito lo assiste, ma non lo informa. Te lo immagini lo Spirito in concorrenza con l’ANSA?

I fatti dunque di cronaca e di storia il vescovo li sente raccontare, li legge sui giornali, li ascolta alla radio. Creature sono, creature fallibili, spesso creature maliziose quelle che giorno per giorno hanno l’onore di formare il pensiero del vescovo. Che orrore! E noi bisogna star zitti? Perché noi zitti? Son più bellini quegli altri? Per rispetto anche questo? E che rispetto è mai questo di vedere il nostro padre ingannato ogni giorno, menato per il naso dai padroni della stampa e del mondo e star lì in umile silenzio a lasciar fare?

Quando si sente il cardinal Ruffini lodare il regime spagnolo, verrebbe voglia di dirgli che un dittatore sanguinario o un governante incapace fa più male alla Chiesa quando la protegge che quando la combatte. Ma invece non ci deve essere bisogno di dire queste cose al cardinale. I princìpi li sa, il Vangelo lo conosce. Non è di idee giuste che occorre rifornirlo. Le avrebbe inventate da sé senza che nessuno gliele avesse suggerite se solo avesse visto certi fatti. Oppure se li avesse saputi con tanta precisione e insistenza da esser come se li avesse visti. Di fronte al bisogno ogni uomo diventa inventore come Robinson nell’isola. E il bisogno di una soluzione ideologica soddisfacente lo crea il cuore quando ha visto la sofferenza.

Un cardinale (fino a prova contraria) lo presumi in buona fede, onesto, buono e inorridito del sangue. Se la sua mente non cerca quali siano gli errori di fondo del regime spagnolo è segno che i suoi occhi non erano presenti a qualcuno di quei fatti disumani che visti da vicino bastano a schierare un cuore per sempre. Nell’austero silenzio della biblioteca di un convento domenicano dove non entra né pianto di spose né allegria di bambini, si può ben disquisire sulla liceità della pena di morte, sui diritti del principe e sulla preminenza del bene comune. Ma nel cortile di un carcere spagnolo quando il forte il vincitore uccide il debole il vinto, quando solo a guardarla in viso la vittima si rivela non un comune delinquente, ma creatura alta che ha preposto il bene del suo prossimo al proprio tornaconto. Oppure fuori dei cancelli dove l’urlio di madri, spose, figlioli trasforma anche il comune delinquente in figlio, marito, babbo, in qualche cosa cioè che vorremmo far vivere e non morire, allora le conclusioni di biblioteca si vorrebbe tornassero in altro modo, allora si ritorna sui testi con un altro desiderio in cuore e nel giro di un’ora il meccanismo dei sillogismi ha bell’e sfornato la soluzione giusta.

Questo saprebbe fare anzi correrebbe a fare anche il cardinal Ruffini, ne son sicuro. Ma il cardinale, nel cortile del carcere di Barcellona nel giorno del Congresso Eucaristico non c’era. E non c’era neanche l’inviato speciale del muro di carta che lo circonda. L’inviato era pochi passi più in là in quella stessa Barcellona in quello stesso giorno. Era a fotografare il generale Franco genuflesso su un faldistorio di velluto rosso dinanzi a centomila fedeli sudditi, mentre leggeva la consacrazione della Spagna al Sacro Cuore. Il generale Franco non ha ascoltato neanche il telegramma del Papa per gli undici sindacalisti di Barcellona e li ha uccisi a sfida nel giorno stesso del Congresso.

Sono abbonato al ‘Giornale del Mattino’. Sono abbonato anche a un settimanale cattolico francese. Se non avessi avuto il secondo non mi sarei mai accorto sul primo di quel che fa la polizia francese. Non che la notizia non ci fosse, ma era riportata di rado e non in vista, e in forma dubitativa e senza particolari. Quanto basta per non accorgersene. Oppure accorgersene ma non dargli il suo posto. Accorgersene ma non schierarsi. Sul giornale cattolico francese la stessa notizia è martellata a tutta pagina e spesso si sente anche la testimonianza diretta dei torturati. E non solo le cose dolorose, ma anche quelle volgari: “Enculer il torturato, pisciargli in faccia, fargli assaggiare la merde francaise, passargli l’alta tensione pei coglioni etc” (Temoignage Chretien 26.6.59 pag.3 e pag.5).

Quattro frasi che non leggeremo mai su un giornale cattolico italiano. C’è chi se ne rallegra perché le trova sconce. Io invece sento una gran tristezza nell’appartenere a una Chiesa sui cui giornali le cose non hanno mai un nome.

Il galateo, legge mondana, è stato eletto a legge morale nella Chiesa di Cristo? Chi dice coglioni va all’inferno. Chi invece non lo dice ma ci mette un elettrodo, chi non lo dice ma non persegue i polizziotti che si macchiano di queste atrocità e persegue invece il libro che testimonia queste cose (La Gangrene, Editions de Minuit 1959) viene in visita in Italia e il galateo vuole che lo si accolga con il sorriso. Il presidente Leone ha rimproverato un deputato: “Non mi sembra opportuno dir male di uno Stato proprio quando il suo capo si trova in questa stessa citta’” (seduta del 25.6.59). E a me invece non sembra opportuno stringere la mano a De Gaulle senza avergli detto queste cose in faccia. Avrei paura che il figlio di un torturato vedesse sui giornali la mia fotografia accanto a De Gaulle magari nell’atto di stringergli la mano col sorriso ebete e beato delle fotografie ufficiali. Avrei il terrore che egli si stampasse il mio viso negli occhi per riconoscermi il giorno in cui per caso mi vedesse sul pulpito in una chiesa missionaria d’Africa.

Il galateo dei giornali cattolici italiani in un articolo come questo toglierebbe i nomi di cardinali e vescovi, toglierebbe i dati esatti del treno Roma-Ancona, toglierebbe i particolari sulla tortura parigina, toglierebbe tutto ciò che convince e si imprime. E ci defrauderebbe anche della frase di quel mussulmano torturato: «Avevo sentito dire che quel genere di tortura rende impotenti e il pensiero che avevo gia’ un bambino mi riconfortava».

Che irresistibile moto di solidarietà nasce quando s’è letto queste parole! Che uomo grande è quello! Che grande civiltà e che civiltà spirituale deve avere dietro di sé per poter esprimere questo pensiero durante la tortura invece che i pensieri di odio. E come questa civiltà non avrà diritto a autogovernarsi? E come son piccini quegli altri. Piccoli e volgari oltre che feroci. E che terrore che essi siano non l’eccezione casuale, ma il segno di una società in disfacimento. E come fa paura il pensiero che essi non sono soli dato che il governo “cattolico” si rifiuta di indagare, dato che ha anzi espressamente abolito nella nuova Costituzione il limite di tempo entro il quale la polizia deve consegnare un prigioniero al magistrato. Il cuore si schiera irresistibilmente.

Ecco cosa puo’ fare la stampa con il solo scegliere le cose da raccontare oppure col solo modo di raccontarle. E bada che non si tratta di uno schierarsi sentimentale che debba per forza concretarsi in uno schieramento politico con l’Algeria contro la Francia,.Non e’ trovare subito una soluzione o ignorare alcune ragioni che possono avere anche i francesi in Algeria. È solo un aver presente al cuore la realtà nella sua interezza e concretezza. Questa è l’anticamera necessaria di uno schieramento razionale ed onesto. Ed è questo che i nostri giornali defraudano a noi e al nostro vescovo. E il danno è immenso perché la maggior parte di noi (vescovi compresi) siamo abituati come le donne a ragionare più col cuore che col cervello. E le informazioni vanno sì alla memoria, ma passando per il cuore, e passando lo formano se sono equilibrate, lo deformano se sono unilaterali, in mille modi che la mente non sa più controllare. Passano e ripassano per il canale del cuore del cardinal Ruffini le informazioni sulle torture ungheresi e il cuore batte. Il cuore del cardinale è generoso, batte e si allarga da quella parte. Perfino uno scomunicatissimo capo comunista (Nagy, Beria ecc.) a un teleordine dell’United Press diventa a un tratto acceleratore di battiti di cuore episcopale. E le notizie di Partigi e di Barcellona non passano. Oppure le une passano con particolari che scuotono, le altre passano in volo senza fermarsi.

E se invece di Barcellona e Parigi avessi pescato esempi in campo sindacale italiano, quanto poco mi ci sarebbe voluto a dimostrare che i giornali cattolici ignorano quel mondo e lo relegano nell’ultimo cantuccio o addirittura ne sfalzano maliziosamente i valori? Un volgare matrimonio di principi ha avuto tutta pagina per settimane (e senza critiche), erano le stesse settimane in cui i giornali cattolici ignoravano la gravità delle vertenze che erano accese in quel momento o peggio si univano incoscienti al coro della stampa “indipendente” per mettere in evidenza solo qualche disagio contingente che quegli scioperi provocavano invece di studiarne la sostanza. Sostanza di gran peso se aveva posto in agitazione due milioni di lavoratori italiani apparteneti a tutte le organizzazioni sindacali con la CISL in testa. Il fatto che due milioni di lavoratrori (cattolici compresi e non ultimi) hanno sacrificato generosamente settimane di salari e rischiato e subito rappresaglie per avere esercitato un loro preciso diritto costituzionale non è fatto talmente serio da meritare la prima pagina nel giornale cattolico e quindi nel cuore del vescovo? Ma non l’ha avuta e se il vescovo non va a cercarla apposta relegata nel cantuccio sindacale non trova la documentata risposta di Storti alle banali accuse della grande stampa contro la CISL.

Gli succede quello che è successo a Barcellona e Parigi.

Per le notizie di lontano spesso siamo stati ingannati anche noi come lui. Per le notizie di vicino (per es. queste ultime) spesso, troppo spesso, s’è visto ciò che lui non poteva vedere e siamo stati zitti. E ora è colpa nostra se il cuore del nostro vescovo è guidato coi fili dai giornalisti. Dai giornalisti il cui cuore è guidato a sua volta da chi? Lo sappiamo purtroppo e vien fatto di rabbrividire. È una catena di responsabilita’ “irresponsabili”, che aggroviglia tutto, e disonora in conclusione noi, la nostra gerarchia, la nostra Chiesa. E poi c’è la figura patetica di quell’uomo prigioniero dell’informazione reticente e dell’ossequio vile. E fa pietà non solo per i cristiani e per i lontani che egli ha ingiustamente disorientato, ma anche per lui stesso.

Un prigioniero bisogna aiutarlo e liberarlo, e tanto più quando è prigioniero il nostro padre. Se non gli sbraneremo il muro di carta e non gli dissolveremo il muro di incenso Dio non ne chiederà conto a lui ma a noi. Ci toccherà rispondergli di sequestro di persona. Dopo tutto quel che abbiamo patito in questo mondo ci ritroveremo nell’altro becchi e bastonati.

(Lettera “A Nicola Pistelli direttore di ‘Politica’ – Firenza. Scritta a Barbiana l’8 agosto 1959)

Forse dovremmo, come suggerisce don Milani, prenderci a cuore la figura di qualche vescovo (credo anche di qualche politico o in genere di qualche persona di potere). Dovremmo dargli qualche simbolico scapaccione, di quelli che fanno tornare il senso delle cose, di quelli che restituiscono equilibrio. Dovremmo esser li a ricordar loro quando cagano fuori dal vaso. Invece troppo spesso ci facciamo intimorire dal ruolo, dalle possibili ripercossioni e lasciamo che chi dovrebbe vedere non veda. Fino a che punto allora possiamo indignarci dei nostri vescovi, dei nostri politici, dei nostri “capi”? Fino a che punto possiamo far finta di non c’entrare? Anche questo credo abbia a che fare con l’essere generazionevaselina, con l’omissione, con il tacere. Credo anche che tutto ciò c’entri molto con la nostra personale dignità.

Molti sanno dove lavoro. Spesso al lavoro mi chiedo dove sta la mia dignità!

Per chi volesse farsi una cultura su certe uscite “da bambini” si sfogli questo sito www.pontifex.roma.it.

(1) Dico purtroppo, perché, trovo che si sia troppo indulgenti nei loro confronti. Chi sceglie di farsi prete, monaco, frate, suora, consacrato, certamente si impegna a condurre una vita che si richiama ad ideali ammirevoli, ma il fatto di averla scelta una volta non significa che la si sappia scegliere di nuovo tutti i giorni.

(2) Il riferimento è al regime Franchista della Spagna di quegli anni, e alle lodi che ne cantava il cardinale Ruffini in una intervista rilasciata alla “Stampa” di Torino il 22 maggio 1959. Il cardinale, che era appena rientrato dal Congresso Eucaristico di Barcellona. aveva detto fra l’altro: «Voi giornalisti parlate pochissimo della Spagna, direi che vogliate ignorarla di proposito. Eppure averla amica potrebbe esserci di validissimo aiuto contro il comunismo… Durante il viaggio in Spagna ho chiesto di essere presentato al generale Franco per ringraziarlo di quanto ha fatto…»

(3) Il vescovo di Prato mons. Fiordelli fu condannato dal Tribunale di Firenze  a 40000 lire di multa per diffamazione nei confronti di due coniugi pratesi da lui definiti “pubblici concubini” perché si erano sposati con il solo rito civile. Per protesta contro la sentenza l’arcivescovo di Bologna card. Lercaro ordinò un mese di lutto nella sua diocesi.

La grammatica del vivere …

31 Dicembre 2009 Nessun commento

A poche ore dalla fine di questo strano 2009, l’occhio mi cade su due libri [1, 2] che mi hanno messo in difficoltà in questi mesi.
Parlano di come noi, la nostra società, il nostro modo di pensare, siamo diventati rigidamente attaccati a verbi transitivi, ed abbiamo abbandonato l’uso di verbi intransitivi.
Non si tratta di libri di grammatica, nè di linguistica o logica, ma libri che scavano nel linguaggio, nel senso comune, nelle nostre radici quotidiane, mostrandoci verso dove salgono e quali direzioni prendono i rami della nostra conoscenza e del nostro vivere.

La caratteristica del verbo transitivo è il fatto di descrivere un’azione che “transita” da un soggetto a un oggetto. Cioè, per poter “esistere” in quell’azione, il soggetto necessita un oggetto, altrimenti, non potrebbe fare un bel nulla. Usare verbi transitivi, one wayvivere di verbi transitivi, significa “dipendere” da un oggetto, essere vincolato a un “qualcosa” per poter agire, per poter vivere. Per come ci muoviamo oggi, possiamo dire di vivere transitivamente, di vivere per e con oggetti: “siamo ciò che compriamo”, siamo la società (come direbbe Latouche) del “ben-avere”, piuttosto che del “ben-essere”.

Il verbo intransitivo è il verbo della riflessività, della responsabilità. Non ha oggetti, non si appoggia a “cose” se non al suo stesso esser detto o agito, se non alla stessa persona che compie e incarna quel verbo. Verbi come vivere, morire, pensare, piangere, sorridere, i “grandi verbi” che compongono il nostro essere al mondo, rimangono baluardi dell’intransitività, verbi a cui è ancora difficile accostare un complemento oggetto. Il verbo intransitivo, potremo dire, non ha oggetti, è un verbo di presenza, di “coraggio e responsabilità” (per citare il motto del nostro sito).
E infatti se ci pensiamo, “cambiare qualcosa” significa riversare l’azione e la responsabilità su quel “qualcosa” che deve essere cambiato. E’ quel qualcosa che crea problemi, che non va, è sua la colpa, è a causa sua che si deve realizzare il cambiamento. “Cambiare” in senso intransitivo sollecita invece la nostra responsabilità, la nostra creatività, il nostro essere persone. Cambiare (in senso intransitivo) ci dice della responsabilità che abbiamo di noi stessi e del mondo, ci dice che il cambiamento non è qualcosa da fare, o qualcosa da realizzare, ma il cambiamento “siamo noi”.
Per questo nuovo anno che a breve ci aprirà i suoi giorni, ci auguro di fare esperienza, come direbbe Ivan Illich, in maniera intransitiva.

(1) Ivan Illich. Nemesi Medica. L’espropriazione della salute. 2004. Mondatori Editore
(2) Ivan Illich. La perdita dei sensi. 2009. Libreria Etitrice Fiorentina.

Il bivio

12 Dicembre 2009 Nessun commento

Da un po’ provavo a mettere su “carta” una ragionata spiegazione della mia disaffezione, non alla politica, ma ai partiti italiani. Qualche giorno fa, sollecitato ancora una volta sul tema da una giovane amica le ho risposto, e ne è uscita questa missiva che vi riporto integralmente.

La tua è una bella domanda… È da un po’ che mi accingo a scrivere un post su www.generazionevaselina.it che parla proprio di questo, ma l’articolo non esce. Inizio a scriverlo, ma poi non lo finisco mai. Non so ben dirti cosa sia: se la mancanza di chiarezza, se l’incapacità di esprimere quel che penso.
Ora provo a spiegarlo a te, ma non prometto di riuscirci.
Tutto nasce dal fatto che sono sempre più persuaso della mancanza di una identità chiara nei partiti. Con identità non intendo parole come “destra”, “sinistra”, “fascisti”, “comunisti”, “ordine e disciplina”, “padania” e tutto quel che vuoi. Intendo che in nessun partito so identificare un barlume di indirizzo, di prospettiva lungimirante, qualcosa che mi faccia intuire dove vogliono andare. Sai bene come la strada che un uomo sceglie di percorrere dice molto sia delle sue aspirazioni, che della sua persona.
Per farti un esempio: un tempo il Partito Comunista Italiano veicolava, al di là di tutte le possibili scempiaggini, l’idea che si potesse realizzare un mondo più giusto; il modo in cui esso perseguiva questo suo ideale ci parlava sia del fine che perseguiva, sia di chi il PCI era.
Oggi nel PD non c’è nulla di ciò. Si parla di tutto e del contrario di tutto. Il PDL? Tanto peggio. Nel PD la parola “democratico” dice della apertura indiscriminata, ma che diviene indefinita, ad ogni prospettiva; nel PDL la parola “Libertà” significa la possibilità di parlare di qualunque tema, ma senza affrontarne alcuno. Prova ne è il fatto che sostanzialmente il dibattito politico degli anni di governo di Berlusconi è stato incentrato esclusivamente sui suoi problemi. Ciò non accade solo perché Berlusconi ne è capo e demiurgo, ma perché effettivamente non hanno una idea organica di come affrontare alcuno dei nostri problemi, per risolvere i quali si sono candidati. E non credere che nel PD le cose siano diverse. Non hanno un progetto, una idea, una prospettiva. Cambiano opinione praticamente dalla mattina alla sera al solo scopo di esistere. Sono delle macchine da voto, dei catalizzatori di consenso, ma di identità, di idee, di prospettive, di futuro…nulla! Sondano le nostre opinioni per poi provare a dirci che quel che in quel momento ci sembra utile è sempre stato il loro particolare (vedi la Lega e le questioni immigrazione e sicurezza). L’unica cosa che distingue PDL e, come ironicamente dice Grillo, il PD meno L, è che almeno nel PDL a vender fumo sono bravi.
Stante in questi termini la mia visione dei partiti (ha parlato di due principali, ma gli altri non li ritengo diversi), capisci come non posso che rinunciare al credere nei partiti che oggi ci sono.
Io voglio fare politica, perché so che con essa posso dare significato alla mia esistenza e potrò un giorno provare a rileggerla secondo un senso. Voglio fare politica, perché so che non farla è da idioti. Voglio fare politica perché può essere l’espressione più alta dell’esperienza umana, che è esperienza di comunione, di socialità, di reciprocità, di servizio e di ricerca della verità; te lo dico anche con le parole di papa Paolo VI: “Prendere sul serio la politica nei suoi diversi livelli – locale, regionale, nazionale e mondiale – significa affermare il dovere dell’uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell’umanità. La politica è una maniera esigente – ma non è la sola – di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri” (cfr. Octogesima adveninens, n. 46)  o come molti hanno tradotto questa espressione: la politica è la più alta forma di carità.
Ciò che conta è quindi iniziare a farla, non importa con chi. Mi piacerebbe avesse importanza il ‘con chi’; vorrei poter scegliere, ma la scelta richiede che esistano almeno due alternative. Nel caso italiano esistono due facce della stessa medaglia, ma la moneta che ti ritrovi in mano è la medesima. Se così è, e purtroppo ne sono convinto, ciò che resta da fare è entrarci e portarvi, per quando difficile e per quando indefinita possa apparire la cosa, una visione di futuro, di prospettiva, una identità. Se ho ragione, sarà facile riempire di senso dei meccanismi che sono solo contenitori vuoti; se mi sbaglio, tanto meglio, significherebbe che invece abbiamo dei veri partiti.

Davide