Al mai compagno D’Alema

Mi ritrovo D’Alema in TV, mentre guardo dal mio divano di lavoratore in malattia, e mi viene in mente la puntata di “La storia siamo noi” in cui si raccontavano in modo chiaro e didascalico le responsabilità del fallimento di un progetto che avrebbe reso Malpensa, Alitalia e quindi l’Italia, uno dei centri del trasporto passeggeri europeo. Ma non fu così…solo che non ce ne ricordiamo e quando i responsabili si presentano in TV, li ascoltiamo, come se avessero qualcosa da dire.

Condividi Tag: , , , , ,

The Day After Tomorrow

Di seguito riporto l’editoriale del Corriere della Sera apparso l’11 luglio 2013, il giorno dopo la richiesta di sospensione dei lavori del parlamento da parte del Pdl. La richiesta di sospensione, concessa da Partito Democratico, è l’atto di protesta del Partito di Belusconi in risposta al fatto che la cassazione ha fissato la data della sentenza sul processo Mediaset.

Il giorno nero della RepubblicaAntonio Polito, Corriere della sera

Se la fissazione della data del processo a Silvio Berlusconi ha prodotto un giorno di stop dei lavori parlamentari, che accadrà il giorno della sentenza? Nonostante alla fine abbiano prevalso quelli con la testa sulle spalle, e l’Aventino minacciato da una parte del Pdl sia stato derubricato a semplice pausa di poche ore, ieri abbiamo assistito alla prova generale di ciò che può accadere al nostro Parlamento nelle prossime settimane. Ostaggio di vicende extraparlamentari, sulle quali né le Camere, né il governo e nemmeno il capo dello Stato possono alcunché. Eppure immediatamente investito, e potenzialmente dissolto, dallo tsunami politico che quelle vicende giudiziarie sono in grado di provocare. Gli attori visti ieri in scena non rassicurano sull’esito. In troppi puntano a trarre un vantaggio di parte dalla rovina comune. Quelli che nel partito di Berlusconi sfruttano la drammaticità della sua ora per acquisire benemerenze e colpire l’ala governativa. Quelli che nel Pd, per lo piu renziani, non vedono l’ora di affondare Letta magari in nome di una riscoperta purezza antiberlusconiana. E quelli che, stando all’opposizione, pensano che il loro compito sia fomentare il tanto peggio tanto meglio. Non si spiegano altrimenti la teatralità e al contempo l’incongruenza delle parole e dei gesti cui abbiamo assistito. Beppe Grillo, mentre urla che «l’Italia è un Paese in macerie» e che «non c’è più tempo», chiede come rimedio lo scioglimento del Parlamento e nuove elezioni, perché per un’altra rissa elettorale c’è sempre tempo. I suoi senatori, in un gesto forse inconsapevolmente peronista, si trasformano in descamisados togliendosi in aula la giacca e la cravatta e fischiando come allo stadio la squadra avversaria. I cosiddetti falchi del Pdl, nelle cui mani è rimasto il partito dopo che la sua parte migliore è emigrata al governo, confondono la Cassazione con un Tribunale speciale e invocano il ritorno alle urne come una nuova Resistenza. Certo, la decisione presa ieri in Parlamento di sospendere i lavori per un giorno, piccolo surrogato concesso al Pdl in rivolta per l’imminenza della sentenza Berlusconi, è fuori dal comune (anche se è prassi per i congressi di partito). Ma purtroppo è l’intera situazione in cui ci troviamo ad essere fuori dal comune, come testimonia la visita serale di Enrico Letta al Quirinale. Comunque la si veda, se ne dia la responsabilità all’imputato Berlusconi che se l’è cercata o ai magistrati che lo perseguitano, la vita e l’operatività del Parlamento e del governo sono infatti costantemente in pericolo. E questo proprio mentre l’Italia arranca, è come schiacciata dal macigno della crisi, tenta disperatamente di rialzarsi, viene di nuovo declassata. Il resto del mondo ci guarda attonito, attendendo di capire se questo grande Paese ha deciso di suicidarsi. Dal pasticcio in cui si è cacciata la politica c’è una sola via di uscita: assumersi ciascuno una responsabilità collettiva. E c’è solo una bussola: attenersi scrupolosamente alle regole dello Stato di diritto, inventate proprio per tenere separati i poteri. Stiamo camminando sul ciglio del burrone. Per favore, smettetela di spingere.] Se la fissazione della data del processo a Silvio Berlusconi ha prodotto un giorno di stop dei lavori parlamentari, che accadrà il giorno della sentenza? Nonostante alla fine abbiano prevalso quelli con la testa sulle spalle, e l’Aventino minacciato da una parte del Pdl sia stato derubricato a semplice pausa di poche ore, ieri abbiamo assistito alla prova generale di ciò che può accadere al nostro Parlamento nelle prossime settimane. Ostaggio di vicende extraparlamentari, sulle quali né le Camere, né il governo e nemmeno il capo dello Stato possono alcunché. Eppure immediatamente investito, e potenzialmente dissolto, dallo tsunami politico che quelle vicende giudiziarie sono in grado di provocare.

Gli attori visti ieri in scena non rassicurano sull’esito. In troppi puntano a trarre un vantaggio di parte dalla rovina comune. Quelli che nel partito di Berlusconi sfruttano la drammaticità della sua ora per acquisire benemerenze e colpire l’ala governativa. Quelli che nel Pd, per lo piu renziani, non vedono l’ora di affondare Letta magari in nome di una riscoperta purezza antiberlusconiana. E quelli che, stando all’opposizione, pensano che il loro compito sia fomentare il tanto peggio tanto meglio.

Non si spiegano altrimenti la teatralità e al contempo l’incongruenza delle parole e dei gesti cui abbiamo assistito. Beppe Grillo, mentre urla che «l’Italia è un Paese in macerie» e che «non c’è più tempo», chiede come rimedio lo scioglimento del Parlamento e nuove elezioni, perché per un’altra rissa elettorale c’è sempre tempo. I suoi senatori, in un gesto forse inconsapevolmente peronista, si trasformano in descamisados togliendosi in aula la giacca e la cravatta e fischiando come allo stadio la squadra avversaria. I cosiddetti falchi del Pdl, nelle cui mani è rimasto il partito dopo che la sua parte migliore è emigrata al governo, confondono la Cassazione con un Tribunale speciale e invocano il ritorno alle urne come una nuova Resistenza.

Certo, la decisione presa ieri in Parlamento di sospendere i lavori per un giorno, piccolo surrogato concesso al Pdl in rivolta per l’imminenza della sentenza Berlusconi, è fuori dal comune (anche se è prassi per i congressi di partito). Ma purtroppo è l’intera situazione in cui ci troviamo ad essere fuori dal comune, come testimonia la visita serale di Enrico Letta al Quirinale. Comunque la si veda, se ne dia la responsabilità all’imputato Berlusconi che se l’è cercata o ai magistrati che lo perseguitano, la vita e l’operatività del Parlamento e del governo sono infatti costantemente in pericolo. E questo proprio mentre l’Italia arranca, è come schiacciata dal macigno della crisi, tenta disperatamente di rialzarsi, viene di nuovo declassata. Il resto del mondo ci guarda attonito, attendendo di capire se questo grande Paese ha deciso di suicidarsi.doc0935

Dal pasticcio in cui si è cacciata la politica c’è una sola via di uscita: assumersi ciascuno una responsabilità collettiva. E c’è solo una bussola: attenersi scrupolosamente alle regole dello Stato di diritto, inventate proprio per tenere separati i poteri. Stiamo camminando sul ciglio del burrone. Per favore, smettetela di spingere.

Per cosa protesta il Pdl? Il motivo della protesta è che la cassazione ha fissato la data del processo in tempi brevi. È ovvio, che le ragioni che spingono il partito di Berlusconi alla rivolta non sono né giudiziarie (la stessa difesa di Berlusconi non contesta l’enorme evasione fiscale portata avanti dal gruppo Mediaset, ma il fatto che Berlusconi, dopo la discesa in campo, non abbia più avuto alcun ruolo nel gruppo), né tanto meno di accanimento nei confronti dell’imputato, come racconta il seguente articolo:

Processo Berlusconi-Mediaset: la Cassazione, la legge e la prassiDaniela Stasio su Il sole 24 ore

La legge è uguale per tutti, e lo è anche la prassi seguita dalla Cassazione per i processi prossimi alla prescrizione. Non poteva fare eccezione, quindi, il processo Mediaset a Silvio Berlusconi (condannato per frode fiscale a 4 anni di carcere e a 5 di interdizione dai pubblici uffici), visto che il 1° agosto scatterà la prescrizione di una delle due frodi consumate dall’ex premier.

Legge e prassi prevedono che, in questi casi di «urgenza», i termini per fissare l’udienza possano essere ridotti fino a un terzo (20 giorni invece di 30) e che, se si è a ridosso della sospensione estiva, il processo venga trattato ugualmente. Pertanto, in base a una legge del ’69 e all’articolo 169 del Codice di procedura penale nonché alle direttive annualmente impartite dal primo presidente della Cassazione, il processo Mediaset è stato fissato il 30 luglio davanti alla Sezione feriale (presidente Antonio Esposito, giudice relatore Amedeo Franco) e la difesa è stata avvisata della riduzione dei termini. Così si arriverà al verdetto prima che scatti la prescrizione, sia pure solo per una delle due frodi. Fermo restando che se la Cassazione dovesse annullare la condanna con rinvio alla Corte d’appello, sarà quest’ultima a verificare anche l’eventuale avvenuta prescrizione (sia pure parziale).

Tutto nella norma, insomma, sebbene il Pdl gridi alla «cospirazione» e all’«aberrazione». L’avvocato Franco Coppi, che affianca Niccolò Ghedini, ammette che la decisione della Corte è «formalmente corretta» ma si dice «esterrefatto» perché «non c’era ragione di fissare termini così brevi» che «incideranno sulla possibilità di difesa», costringendo gli avvocati a «una preparazione affannosa». Ghedini parla di «tempo eccezionalmente breve» e contesta il calcolo fatto dai supremi giudici perché «il primo dei due reati si prescriverebbe, valutate le sospensioni, parecchi giorni dopo la fine dei termini feriali del 15 settembre 2013, mentre l’ultima contestazione si prescriverebbe addirittura a fine settembre 2014».

Ma la ragione dell’accelerazione è solo l’imminente prescrizione. Per questa stessa ragione centinaia di processi vengono trattati dalla Cassazione con maggiore celerità. Basti solo pensare a quelli per concussione: dopo la legge Severino sull’anticorruzione (190/2012), la Corte è stata costretta addirittura a modificare la propria agenda per accorparli e anticiparli perché molti di quei processi, altrimenti, sarebbero arrivati in udienza già prescritti visto che la legge 190 ha ridotto da 15 a 10 anni la prescrizione della vecchia «concussione per induzione» diventata «induzione indebita» (nonostante questo sforzo, per alcuni non c’è stato nulla da fare). E del resto, sono centinaia i «169» – come si chiamano in gergo i casi «urgenti» – che la Cassazione manda in Procura generale con la segnalazione di «prescrizione imminente» e su cui il Pg chieda la riduzione dei termini per il giudizio.

A motivare tanta ostilità nei confronti dei giudici è una sola cosa: la paura che tutto finisca.

Per i parlamentari (Pdl e PD) la paura che cada il governo, si torni al voto e… nel Pdl, se non c’è più Berlusconi, sia finito anche il partito… nel PD, con Renzi già pronto a scattare, si rischi il repulisti e la fine politica per una generazione intera di parlamentari.

Per il Presidente Enrico Letta la paura è nel tempo: più dura il suo governo, più possibilità ha di consolidarsi e diventare “realtà” un modello di PD che ricicla per l’ennesima volta il vecchio establishment (PC, PDS, DS, cioè Dalema & Co.); Letta, di tale riesumazione, diverrebbe di conseguenza il punto focale.

Per Berlusconi… non serve spiegarlo; il suo “non intendo fare la fine di Craxi” è quantomai eloquente.

Per noi l’imminente scomparsa di Berlusconi dalla vita plitica del Paese rappresenta un’altra paura ancora. Chi voteremo? A chi affideremo le nostre speranze? Dopo vent’anni di politica incentrata attorno a lui, da destra, com’era ovvio, ma anche da sinistra, ognuno di noi si trova a vivere l’inquietudine del dopo. E dopo che Berlusconi se ne sarà andato? Per chi si sente di centrodestra finisce un sogno. E come accade sempre dopo i sogni, ci si deve svegliare e fare i conti con la realtà, che dopo un sogno di 20 anni, è molto cambiata rispetto a come la si è lasciata prima di addormentarsi. Per chi si sente di centrosinistra potrebbe sembrare una liberazione, ma in realtà, dopo vent’anni di partiti di centrosionistra che hanno posto il loro fondamento non sulle istanze della parte più debole della società, ma sulla contrapposizione a Berlusconi, la sua caduta rappresenta anche da questa parte un salto nell’ignoto. E dopo Berlusconi cosa ne sarà del PD? O per restare nella metafora del sogno: gli elettori di centrosinistra, visto che la moglie accanto a loro dormiva, hanno pensato di aprofittarne…e farsi un sonnellino pure loro. La moglie per lo meno ha sognato (un miliaridario furbetto che la corteggiava), il marito si sveglierà convinto di aver solo chiuso gli occhi…ma anche per lui 20 anni sono trascorsi.

E poi ci sarebbe la Repubblica. Ecco lei è forse l’unica a dover sperare che Berlusconi scompaia. Ma dato che è l’unica a volerlo, è probabile che alla fine debba arrendersi e a finire sia proprio lei.

Condividi Tag: , , ,

Il bene del Paese

Riporto l’editoriale di Ezio Mauro apparso oggi sul sito de La Repubblica, l’originale e reperibile a questo indirizzo.

Il Paese prima di tutto, avevamo detto qualche giorno fa. Oggi possiamo aggiungere: in particolare nei momenti di difficoltà. Ma dove sta il bene del Paese? Proviamo a ragionare, se è ancora possibile fare una discussione serena anche con chi non si riconosce nel pensiero dominante di questa primavera italiana 2013. O almeno col tentativo di usare l’emergenza politica per un cambio di stagione generale e definitivo, che trucchi i conti della piccola storia italiana di questi anni. Non voltando pagina, perché questo accade spesso. Ma riscrivendola.

Tre punti mi sembrano non controversi. 1) – L’Italia è in difficoltà, la crisi dell’economia reale sta sopravanzando il rischio finanziario rivelandosi in tutta la sua gravità per le aziende, per i lavoratori, per la coesione sociale. 2) –  Un governo è indispensabile, e chi ha detto il contrario è uno sprovveduto in linea con i populismi vari, che campano spacciando risposte semplici a problemi complessi. La Spagna proprio in questi giorni ha negoziato con Bruxelles due anni in più di tempo per il rientro del deficit, dimostrando che un esecutivo con conti e programmi alla mano può farsi ascoltare in Europa fino a bucare il muro dell’austerity dogmatica. 3) – Dopo aver sfiorato il default finanziario, il sistema ha rischiato il default istituzionale.

E questo perché le tre minoranze uscite dalle urne anche grazie ad una legge sciagurata non sono state capaci di formare una maggioranza di governo, e addirittura non sono riuscite a dare forma all’istituzione suprema, la presidenza della Repubblica. Da qui il corto-circuito che ha portato tre partiti a chiedere a Napolitano di ricandidarsi perché il parlamento era bloccato, accettando nel contempo la richiesta del capo dello Stato di impegnarsi a far nascere un governo, due mesi dopo il voto. Quindi un governo di necessità, una situazione estrema, una soluzione eccezionale fortemente contraddittoria, perché trova unite questa destra e questa sinistra, che si sono contrapposte duramente per vent’anni.

Com’è chiaro, non sono le responsabilità che devono spaventare. Ci sono parecchie cose che non solo si possono, ma si devono fare insieme tra forze politiche molto diverse (Scalfari ha ricordato Togliatti) e riguardano le regole del gioco e le sue varie forme, quindi la legge elettorale, la riduzione del numero dei parlamentari, la correzione del bicameralismo perfetto, il taglio dei costi della politica: tutte misure che potrebbero ridare efficienza alla macchina democratica, ma soprattutto potrebbero avviare un recupero di fiducia nel rapporto in crisi tra partiti, istituzioni e cittadini. Anzi, le politiche di cambiamento e di novità (come la scelta da parte di Enrico Letta del ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge) sono l’unica strada per governare la contraddizione politica di questa maggioranza, provare a superarla nei fatti e guardare avanti, ricordando che la premiership viene dal Partito democratico e deve averne il segno.

dollari_vs_giustiziaIl punto in discussione è il tentativo ormai evidente, sistematico, insistito e molto diffuso di vendere un’alleanza di emergenza come uno stato d’animo del Paese, trasformando un governo di necessità in un’opportunità culturale per rimodellare la vicenda storica di questi anni. L’operazione cambia le carte in tavola, e assume un unico punto di vista – quello della destra, con le sue convenienze – come fondamento oggettivo della nuova fase. È evidente a tutti che Berlusconi, giunto terzo alle elezioni, arriva al tavolo delle grandi intese per scelta, con un’opinione pubblica che si sente premiata, una classe dirigente che appare miracolata. Dall’altra parte, il Pd – sconfitto politicamente nel momento in cui prevaleva numericamente – arriva alla condivisione di governo per obbligo, con un’opinione pubblica contraria e frastornata, un gruppo dirigente disorientato e diviso. La sinistra vuole governare per fare poche riforme necessarie, affrontare la crisi del lavoro, rinegoziare la stretta dell’austerity con l’Europa e andare al voto. La destra vuole rilegittimarsi come forza di governo dopo il fallimento del ministero Berlusconi, vuole istituzionalizzare la carica “rivoluzionaria” che aveva in passato portandola dentro il sistema, vuole sacralizzare la figura del suo leader ripulendola dalle troppe macchie degli ultimi anni attraverso un ruolo da padre della Repubblica: senatore a vita, o presidente della convenzione per le riforme. Dunque il governo può durare finche servirà a questo scopo.

In sostanza è come se la destra dicesse al sistema: l’anomalia berlusconiana (composta dalle leggi ad personam e dal rifiuto di accettare il giudizio dei tribunali, dal conflitto di interessi, dallo strapotere economico e mediatico, da una cultura populista che intende il potere eletto dal popolo sovraordinato rispetto agli altri poteri, dunque insofferente per natura speciale ad ogni controllo) è troppo grande e troppo permanente per essere risolta. Il sistema è stremato per lo scontro senza soluzione con la presenza fissa di questa anomalia. Dunque al sistema conviene costituzionalizzarla, introiettandola: ne uscirà in qualche misura sfigurato ma definitivamente pacificato, perché a quel punto tutto troverà una sua nuova deforme coerenza. Per questo, la grande coalizione è un’occasione irripetibile, guai a non sfruttarla ben al di là del governo.

Per arrivare fin qui, al vero scopo, è necessario lavorare sul “contesto”. Ingigantire l’aura di questo governo, parlando di “pacificazione”, di uscita dalla “guerra civile”. Bisogna cioè creare un senso comune accettato che ricrei le basi del confronto politico e rinneghi la lettura di questo ventennio, sia la lettura di destra che quella di sinistra (quella centrista o liberale non conta, perché è sempre al traino della cultura dominante in quel momento). E il senso comune è quello della grande omologazione nazionale, dove si scopre all’improvviso che destra e sinistra sono uguali, le vicende di questi ultimi anni non contano più per gli uni e per gli altri, non hanno lasciato segni nella storia, nella cultura istituzionale, nella piccola vicenda dei partiti, nel loro rapporto che pure è stato per lunghi tratti vivo, vitale e addirittura vivace con le opinioni pubbliche di base.

Ne discendono norme nuove di comportamento, inviti insistenti. Valga per tutti “il principio di realtà”, quindi non le culture di riferimento, gli interessi legittimi che si rappresentano, addirittura gli ideali diversi. No, conta solo la “realtà”, cioè il dato di oggi che prevale sul futuro e sulla storia italiana di questi anni. La politica si conformi. I giornali cambino addirittura tono, abbassando la voce, come se ci fosse un tono prefissato secondo le stagioni di governo, e i toni non fossero ogni volta la reazione a precise azioni dei protagonisti, dichiarazioni, proclami. Il risultato da ottenere è evidente: una grande amnistia culturale deve scendere sul ventennio, non lo si deve più ricordare per non giudicarlo, tutto è alle spalle, tutto si confonde, gli statisti non sono a targhe alterne ma in servizio permanente effettivo.

E qui, il nuovo senso comune ben coltivato porterà all’esito finale di tutta l’operazione: la fine del giudizio penale ancora in corso per definitiva autoconsunzione, in quanto il nuovo clima dominante di conciliazione governante prevarrà sul clima che pretendeva giustizia, o sosteneva per anni la pretesa di volere addirittura la legge uguale per tutti. Giuliano Ferrara lo ha detto lucidamente: la strada maestra per Berlusconi è spingere per la grande politica, “obliterando in questo modo ogni valore morale delle condanne che lo riguardano”. Vale a dire che il nuovo senso comune spodesterà quello precedente, vivo per anni, maggioritario o di minoranza secondo le fase, e tuttavia vivo. Alla fine si presenterà tutto questo come una vittoria della politica, mentre è un’altra cosa. L’abuso semantico e politico, dunque culturale, del concetto di governo di salute pubblica si estenderà prosaicamente alla salute privata di qualcuno. E quando questo clima sarà instaurato, potranno venire come al solito le norme ad personam, visto che a quel punto non sembreranno più un vulnus, ma un esito naturale e accettato.

Nella lettura a reti unificate che i giornali danno della grande intesa, si vedono tutti i segni di questa costruzione complessa che si richiama alla “realtà”, ma che configura un’iper-realtà politica di comodo, addirittura ideologica. È una lettura dalla quale ci discostiamo. Si possono – si devono – fare le cose che servono al Paese, ma salvando il vero principio di realtà, che consiste nel preservare le diverse “visioni sostantive” del Paese, le identità distinte di destra e sinistra, le letture degli ultimi vent’anni che sono state fatte in forme tutt’affatto difformi nei due campi, le due diverse idee dell’Italia. Qui c’è la base di un’onesta responsabilità condivisa, proprio perché qui c’è la coscienza dei limiti dell’emergenza, il rispetto delle pubbliche opinioni, la consapevolezza del fatto che il Paese ha bisogno di una maggioranza e di una minoranza, a cui si deve tornare appena i nodi principali sono stati sciolti. Qui, nelle differenze occidentali, nel rispetto onesto delle diversità, sta la base del futuro scontro elettorale, della ripartenza del Paese e del confronto democratico. Ecco perché tutto questo ci sta a cuore. Perché non tutto è emergenza, e nelle differenze culturali sta il bene del Paese.

Condividi Tag: , , , , , , , ,

Ascanio Celestini: “Siamo contro a prescindere. Nessuno ci rappresenta”

Riporto per intero un articolo apparso su “Il fatto Quotidano”. L’attore, a poche settimane dal suo nuovo spettacolo teatrale ‘Discorso alla nazione’.

Ascanio Celestini usa le parole come un muratore fa con le pietre. Messe una sull’altra, oppure lasciate a terra, tenute strette da un bisogno, da un sogno, da una bestemmia, realizzano un pensiero, ci conducono al fondo dei nostri dubbi. Vive in una borgata romana, “dieci centimetri sotto l’appartamento dove sono nato. La mia bottega è quella di mio padre, e mia moglie è figlia del nostro ex portiere. Ci stiamo costruendo una casa nuova nella parallela della via dove abito. Tutta la mia vita in cento passi o poco più”. Dalla borgata la crisi si vede più nera: “Cambiano i volti, sono facce scure, mediamente sole, e pronunciano parole violente. Frequento il bar e lì guardo e ascolto”.celestini-interna-nuova

La violenza ci difende dalla paura, non ti pare? “Dalla solitudine direi. A Morena, il nome della mia borgata appena dietro Ciampino, non c’è abitante che non abbia sgobbato una vita. Uno, due, tre lavori insieme. Hanno la lavatrice (la lavastoviglie non tutti), ma due o tre televisori e il computer e la verandina e il sottotetto. Hanno il salotto e la cucina Scavolini. Ma sono soli. Si sono costruiti una solitudine con grande fatica. E vedono quel minimo senso di benessere sfuggirgli di mano, andarsene via”.

Soli e disperati. “Ti ricordi trent’anni fa cos’era un partito? La Dc o il Pci? Se io e te eravamo iscritti al partito, o solo simpatizzanti o anche semplici elettori, avevamo punti di vista comuni. E il nostro punto di vista era in qualche modo simile a quello del segretario del partito. Era una comunanza di sguardo: guardavamo lo stesso orizzonte. Ed eravamo felici di esserlo”. Era la comunione. “Il mio destino è il tuo, la mia pena la tua, la mia felicità simile a quella che provi tu. La mia vita è un po’ la tua”. Oggi è l’opposto. “Oggi godo tanto di più quanto più inveisco contro di te, mi sento distante da te e ti maledico. Altro che leader, sei lontano, devi sparire, mi porti solo guai. Sei un incompetente, un truffatore. E rubi, è il minimo che ti dico”.

La crisi sconforta, e i conti li stanno pagando gli innocenti. Nessuno porta responsabilità quando invece c’è. Non è che si diventi cattivi perché l’umore cambia. “Descrivo uno stato d’animo. Vado al bar e sento solo dire: in galera! In carcere gli extracomunitari che pisciano davanti al mio portone; in carcere naturalmente Berlusconi e in carcere pure tu. Siamo contro, e a prescindere e costruiamo questa condizione di avversione perché al fondo abbiamo l’idea che ormai nessuno più ci possa rappresentare”. Ci possa aiutare o anche solo rappresentare? “C’è bisogno di una guida? Non c’è bisogno. Quelli sono incompetenti, no? Sai perché ha vinto Grillo? Perché il suo movimento, o non movimento, può rinegoziare ogni giorno il suo punto di vista. Non è ancorato a nessuna idea”.

Non sembra ti piaccia. “Non mi piace, non mi ci ritrovo, ma capisco. Lui parla a quella piccola borghesia che sta perdendo la lavatrice, il sottotetto, l’automobile, i contributi previdenziali. Parla ai miei coinquilini, alla mia borgata. È gente impaurita (e io dico giustamente). Mica senti Grillo discettare degli immigrati, o dei poveri che non hanno più nulla? Sono invisibili e non li vede neanche lui. Malati terminali della società”. Quando una vita si sbriciola all’improvviso, non c’è futuro e nemmeno una speranza, persino la precarietà diventa un bene di lusso che pochi possono detenere. Come puoi chiedere uno sguardo comune? “La legge del formicaio sovrasta ogni formica. È il sistema che è imploso, ma non siamo in grado di riuscire a individuarne un altro. Sono stato ad Auschwitz e Shlomo Venezia mi ha raccontato la sua drammatica avventura. Internato nel lager era chiamato a condurre i prigionieri alle docce chimiche voce: “Shlomo! Shlomo! È suo cugino Leone che lo riconosce e lo chiama. Si avvicina, gli chiede: perché devo morire? Puoi fare qualcosa tu? Shlomo non sa fare altro che andare dal militare tedesco e gli chiede il favore di salvarlo. Il tedesco risponde: e che posso farci io? L’orrore di questa scena si reggeva su un sistema collaudato di decisione e di comando. Al tedesco non competeva valutare”. Non mi compete, non è mio compito, chiami quell’ufficio.

E’ il medesimo paradigma della nostra burocrazia: nessuno è chiamato a rendere conto. “La vita è responsabilità. E invece stiamo facendo appassire la nostra vita, il nostro futuro nell’eterna assoluzione di noi stessi. La colpa è sempre degli altri: di chi è al governo o al municipio, della dottoressa dell’Asl, del vigile urbano. La colpa è del geometra. Siamo poveri per colpa degli altri, stiamo male per colpa degli altri. Colpa loro: la scelta più agevole per un ignavo. L’indice puntato. Sono gesti che si ripetono davanti ai miei occhi e parole che risuonano come fosse un sottofondo musicale. E invece è sempre mia la responsabilità”. Tra un po’ di settimane inauguri a teatro il tuo Discorso alla nazione, anche tu con una soluzione in tasca: “C’è un paese che sta lentamente scivolando nella guerra civile. Non tutti se ne accorgono. Un tizio si candida a fare il dittatore, dopotutto è meglio un dittatore che la guerra civile. E dopotutto la gente pensa di sì”.

di Antonello Caporale
Da Il Fatto Quotidiano del 22 marzo 2013

Condividi Tag: , , , ,

Vecchi

Non ci sentiamo da un bel po’ di tempo, ma per fortuna il cervello ha continuato a macinare. Mi piacerebbe riprendere il discorso e riparto da un tema trattato in un pecedente post. CI ervamo lasciati al tempo con un discorso sulle conseguenze dell’accidentalità dell’esperienza umana. Dicevamo di come per l’uomo del nostro tempo la domanda sul senso e sul fine del proprio esistere abbia una valenza puramente soggettiva. Tutto ciò, come visto in “Speranza”, fa dell’esistere odierno una esperienza solitaria, senza una storia, ma anche senza seguito. Faccio un passo avanti.
Quanto detto potrebbe indurre a pensare che l’uomo contemporaneo sia attraversato da un senso di profondo sconforto e pessimismo. L’immagine è quella di soggetti errabondi, impossibilitati dalla natura stessa del loro viaggio ad avere compagni; costretti a percorrere sentieri vergini; senza la speranza di poter lasciare alcuna eredità del proprio peregrinare, né tanto meno del proprio approdo.
Viene spontaneo, di fronte ad una tale descrizione, essere colti dalla malinconia e dallo scoramento, ma non sono certo questi i sentimenti che attraversano l’uomo contemporaneo. Egli non vive la sua solitudine nello sconforto, ma nel più totale incanto; il suo isolamento, anziché motivo di depressione, è ragione di esaltazione. Se infatti l’uomo non appartiene più ad una storia, non ha più alcuna meta che lo trascende, non ha nulla da tramandare, significa che egli stesso, come singolo, è l’attore unico dell’unico atto, dell’unica storia. È l’egocentrismo, testualmente parlando, assoluto. Se non vi è una “grande” storia in cui trovare il proprio posto, allora la propria storia diventa l’unica. Se non vi è una meta comune, il mio percorso, la mia meta, il mio fine divengono l’unico fine. Se non vi è speranza di un valore condiviso che accomuni la nostra esperienza, allora il valore che ognuno da al proprio esistere diviene l’unico valore a cui attenersi.
Queste mie analisi non devono essere prese in termini moralistici. La mia non è una accusa all’egocentrismo e al soggettivismo imperanti. Se essi esistono e si manifestano, è evidente che sono accompagnati da una ragione, ed è quella che mi interessa sviscerare. Il fatto che la loro esasperazione metta a rischio la convivenza umana, la sopravvivenza della specie e lo stesso ecosistema in cui viviamo, mi pare talmente banale da non doverci perder tempo (1). Ciò, ribadisco, non significa che io ne faccia una questione morale, cioè non credo che la spiegazione, e quindi la soluzione, di queste questioni abbia a che fare con lo smarrimento ed il conseguente recupero di una qualche morale. Semmai ci si dovrebbe chiedere quale etica possiamo sperare da un uomo che è solo. Allora, prima di fare la morale, io mi propongo di andare un po’ a fondo di questo uomo; prima di chiedergli scelte morali, intendo interrogarmi di quale etica egli possa essere capace.
Riprendo allora le mie speculazioni sull’uomo contemporaneo. Vi descrivo alcuni segni di questo egocentrismo di cui andavo accennando poc’anzi. Per farlo, spero che ciò non induca all’abbandono di questa lettura, dovrò chiamare in causa il tema che io ritengo discriminante per il nostro ragionare: il tema ella morte.
VecchirttoÈ infatti nei confronti della morte che la presa di coscienza della propria accidentalità assume i tratti egocentrici a cui ho accennato. La morte è misura e limite della vita. È la cosa di cui possiamo andare più certi, anche se non ne possiamo conoscere i tempi e i termini esatti. È paradosso biologico, dato che esiste per dare spazio al susseguirsi della vita. È paradosso umano perché è nella sua finitezza che l’uomo prende coscienza del proprio esistere. È paradosso per l’uomo contemporaneo che l’allontana proprio perché è l’unica certezza a cui può aspirare.
La morte non è mai stata auspicabile; per quanto le religioni e i miti abbiano cercato di renderla meno buia, arrivando in alcuni casi a vederla come momento di passaggio, essa non ha mai smesso di far paura. Ciò non significa che non venisse compresa in un senso.
Se la propria vita era vista all’interno di una storia, di un cammino più grandi, la nascita e la morte diventavano i meccanismi attraverso cui questo percorso si spiegava. All’interno di una prospettiva di questo tipo, diventava logico attraversare la propria vita come una parabola. Certo, non si sapeva l’ora della propria fine, ma forse proprio per questo diventava essenziale assolvere il proprio compito, fare la propria parte il prima possibile. Farsi trovare pronti dalla morte significava arrivarci dopo aver compiuto il proprio dovere. Essa era sempre presente, come uno spettro, pronta dietro l’angolo, per questo non c’era tempo da perdere, bisognava dare senso a quel poco tempo che si aveva. Bastava una influenza, una infezione e il tempo scadeva.
Oggi non è più così. Per mezzo della medicina e delle tecniche che la scienza mette a disposizione, la morte non è più dietro l’angolo, pronta a colpire, ma, anche se lo è, abbiamo i mezzi e gli strumenti per fermarla. O almeno ci dilettiamo nel pensarlo, dato che sia il fatto che la medicina e le scienze siano all’origine dell’innalzamento della vita media delle persone, sia il fatto che la morte sia procrastinabile all’infinito sono entrambe delle favole (2). Vero o meno che sia il contributo della medicina e delle scienze nel curare, la diffusa idea che esse siano in grado di guarire le malattie ha rivoluzionato l’approccio dell’uomo alla morte. Essa, da compagna di viaggio, si è trasformata in imbarazzante presenza da esorcizzare e allontanare, possibilmente da debellare.
Ora a molti questa rivoluzione potrà apparire positiva; potrà ritenere un bene quanto viene fatto e speso nell’inseguire l’idea di scongiurare la morte; ad ognuno il proprio giudizio. Ciò che ci preme in questo scritto è vedere come la rivoluzionata idea della morte si fonda con la visione accidentale della vita producendo un tipo di uomo che non s’era mai visto prima. Lo chiamerò per convenzione ‘l’ottantenne’, ma sia ben chiaro che egli ne è solo il massimo esempio, in questa descrizione ci cadiamo tutti. Perché prendo ad esempio l’ottantenne? Perché, a mio avviso, è nei discorsi e negli atteggiamenti di molti ottantenni e giù a seguire, che si scorgono gli effetti del connubio di cui sopra. Mai sentito espressioni come “La vecchiaia è una brutta malattia”? Ve ne elenco altre: “terza età”, “sentirsi giovanili”, “essere ancora in gamba”, “scoprire una seconda vita”.
Queste frasi sono indice di una incapacità (comprensibilissima ma pur sempre incapacità) di fare i conti con il senso del proprio esistere. Raccontano di persone che sono vecchie e che non sanno accettare il fatto di esserlo e si nascondono dietro parole come anziano, terza età, perché non accettano l’essere vecchi, la considerano invece una malattia, una sorta di ingiustizia, di sfiga che li ha colpiti. Vivono la vecchiaia, la perdita di tono muscolare, di resistenza fisica, di freschezza mentale, come un fatto anomalo, un malanno; quelli che sono i segnali dello stato di salute nell’età senile, divengono i sintomi di una malattia degenerativa chiamata appunto vecchiaia.

(1) Questo, lo so, non toglie che ci siano dei farfalloni, non so se in buona o cattiva fede, che vanno predicando l’inesistenza di problemi come lo sfaldamento dei legami sociali e comunitari, il sovraffollamento umano del pianeta, l’esaurimento delle risorse naturali, ecc.
(2) Per chi facesse fatica ad accettare queste mie considerazioni o per chi avesse intenzione di approfondire segnalo Nemesi medica di Ivan Illich e Che cosa vuol dire morire a cura di Daniela Monti.

Condividi Tag: , , , , , , , ,

Cari compagni e care compagne

Vi propongo questo video…dice molto meglio di me ciò che penso…

Immagine anteprima YouTube Immagine anteprima YouTube
Condividi Tag: , , , , , , ,

Dobbiamo difendere le nostre zanzare

Il sindaco di Cittadella e parlamentare della Lega Nord on. Massimo Bitonci ha emesso un’ordinanza per vietare i Kebab nel suo comune: «non sono alimenti che fanno parte della nostra tradizione e della nostra identità». Vietato aprire locali sia nel centro storico che nelle frazioni. (vedi articolo su Il Mattindo di Padova)

Giusto, giusto, giusto!!!

Ma questo dev’essere solo l’inizio. Bisogna vietare anche l’uso del pomodoro, frutto plurisperme dal caratteristico colore rosso. La data del suo arrivo in Europa è il 1540 quando lo spagnolo Hernán Cortés rientrò in patria e ne portò gli esemplari e basta aprire un banale ricettario per rendersi conto di come abbia invaso le cucina nostrana. E ciò deve valere anche per tutti gli altri prodotti un tempo sconosciuti come il mais, il cacao, i peperoni, le zucche, le patate e i fagioli, in uso dalle popolazioni native americane e importati dagli spagnoli. Basta. Devono essere vietati. Dobbiamo bandire il loro consumo e ci devono essere multe salate per chiunque li detenga illegalmente.

Vanno vietate la mozzarella e con essa tutte le pizzerie “La Bella Napoli” aperte da qualche meridionale in odore di camorra. Ciò deve avvenire a meno che non si scopra (1) che la pizza altro non è che una focaccia, tipico prodotto della pedemontana veneta. In tal caso il locale pizzeria dovrà mutare denominazione da “La Bella Napoli” in “La Bella Montanara”.

Ovviamente ogni sacrosanta norma volta a vietare il Kebab va estesa anche ai famigerati McDonalds, anch’essi espressione di altra cultura e rappresentanti di uno stile alimentare assolutamnte erstraneo alla nostra tradizione culinaria.

Dalla lista nera, sia ben chiaro, non deve mancare neppure l’arrogante piadina, di origine bolscevico-romaglola. Anche per la sua distribuzione non vengono garantite le più comuni norme igieniche, oltre al fatto ovvio – ma non per questo di poco conto – della sua origine subveneta.

Ma se anche riuscissimo nella nobile impresa di far sloggiare dalle nostre terre oltre al Kebab anche il pomodoro, il mais, le melanzane, la mozzarella, gli hamburger e l’odiosa piadina, non potremmo ancora dirci liberi. Il vero male, la vera invasione, il simbolo del venir meno della nostra cultura e delle nostre tradizioni è la zanzara tigre.

Questa è la bataglia di civiltà. Questo è la guerra da combattere. E noi chiediamo al Sindaco e Onorevole Massimo Bitonci di farsi paladino di questa santa crociata. La zanzara tigre va vietata e bandita dalle nostre terre.

Una volta, quando c’erano solo le zanzare nostrane si stava meglio. Il ciclo delle cose era rispettato. Ci si divideva lo spazio della giornata: a noi le ore di sole a loro la notte; nel rispetto delle più banali leggi della natura. Queste zanzare così dette “tigre”, al contrario, si fanno beffa non solo delle leggi naturali, ma anche del buon senso che le vuole insetti notturni. E poi, se è vero che anche le zanzre nostrane pungevano, va ricordato che le loro puntore facevano parte del ciclo dell’estate. Qui invece si sta mettendo in gioco la nostra stessa identità; quelle che erano le nostre tradizioni: la zanzara nelle sere d’estate è un prodotto tipico che va tutelato. Una tradizione lasciataci dai nostri padri che non va dispersa.

Ma queste nuove zanzare non hanno rispetto di niente. Delinquono aggredendo in pieno giorno donne e bambini nell’indifferenza totale delle istituzioni. Quelle che un tempo erano le pozze d’acqua stagnante dove deponevano le zanzare nostrane, ora sono diventate bassifondi albergati da queste nuove venute; e il risultato è che per le nostre zanzare non ci sono più pozzanghere e stagni dove crescere le loro larvette.

Dove andremo a finire di questo passo?

C’è solo una cosa da fare. Vietare i nostri territori alle zanzare tigre. Noi non siamo contro la biodiversità, ma bisogna rispettare la storia. Le zanzare che servono devono poter entrare, quelle che non servono restino nel loro habitat. Non dobbiamo lasciare che ci invadano. Non possiamo permettere che si prendano tutte le pozzanghere. Le pozzanghere devono andare prima alle zanzare nostrane, e poi, se ne avanzano, a quelle straniere.

Un’ultima cosa: probabilmente qualche cattocomunista ci accuserà di zanzarrismo e di tigrofobia. Ma noi non abbiamo paura di queste menzogne; perché noi stiamo in mezzo al popolo, noi ascoltiamo i bisogni e diamo risposte alla nostra gente.

__

(1) Il Comune di CIttadella potrebbe farsi carico di commissionare una ricerca al fine di dimostrare l’originalità padana della pizza e smentire così il volgare pensiero che la crede nata sotto il Vesuvio.

Condividi Tag: , , , , , , ,

12 e 13 giugno, io vado a votare

Condividi Tag:

Dal Vangelo secondo Davide

Immagine anteprima YouTube

Si narra che un dì l’Inghilterra fiorì | di audaci cavalier; | il buon re morì senza eredi e così | agognaron tutti al poter. | Soltanto un prodigio poté salvar | il regno da guerre e distruzion: | fu la Spada nella Roccia che un bel di’ | laggiù comparì.

Così, come iniziava il film di animazione della Disney, potrebbe iniziare questa storia.

Si racconta che un giorno la nazione fiorisse di nobili e saggi governanti; ma uno dopo l’altro essi furon cacciati da un manipolo di sinistri che si posero a giudici e maestri e che avevano come unico scopo la presa del potere. Soltanto un prodigio potè salvare il regno da guerre e distruzioni, da un futuro incerto, soffocante, illiberale: fu un benefattore che un bel di’ laggiù comparì.

«Descendit de coeli propter nos homines» e venne ad «habitare in nobis propter nostra salutem». Era il 26 gennaio 1994 e le sue parole furono:

«l’Italia è il paese che amo».

Era la dichiarazione sovrana proveniente da uno che, se avesse voluto, avrebbe potuto continuare una vita felice in sé e per sé, oppure avrebbe potuto prescegliere altri luoghi per vivere o per discendere sulla terra. L’Italia, così, è diventata la prediletta che, in virtù di questa predilezione, dovrà ricambiare l’amore che tanto gratuitamente le è stato donato.

Poi egli proseguì:

«Ho sentito una specie di responsabilità che non poteva essere elusa e, forse esagerando, mi sono sentito nella condizione di chi, dovendo partire per un bel viaggio si è trovato improvvisamente davanti qualcuno bisognoso d’aiuto. Ecco, nonostante la prospettiva del viaggio, della vacanza programmata, non sarebbe stato possibile girare la testa dall’altra parte, si sarebbe trattato di una vera e propria omissione di soccorso. È per questo – perché ci sentiamo tutti responsabilmente chiamati a uscire dal nostro egoismo per fare quanto possiamo per il nostro Paese – che noi siamo qui, che abbiamo risposto a questa specie di chiamata alle armi. È per questo che oggi noi siamo qui, con la volontà di cominciare da qui un lungo cammino, un cammino di speranza e di fiducia nel nostro futuro. Credevo di avere finito con i traguardi e con gli obiettivi, credevo che la mia corsa fosse arrivata finalmente alla meta finale, credevo di poter fare il nonno, di leggere i libri che non ho letto, di vedere i film che non ho visto, di ascoltare le musiche che mi piacciono. Ma ecco profilarsi un pericolo grande per il nostro Paese, qualche cosa che poteva cambiare la nostra vita e soprattutto la vita delle persone a cui vogliamo bene: un futuro incerto, soffocante e illiberale. Ecco allora improvvisamente un nuovo irrinunciabile traguardo: garantire al Paese la permanenza nell’occidente, nella libertà, nella democrazia».

(Una storia Italiana)

C’è un popolo intero che ha bisogno di soccorso, che è in balia di briganti senza scrupoli. Non corrispondere a una tale chiamata sarebbe un atto di egoismo. Ci sono scettici, miscredenti e invidiosi, che non sanno apprezzare e pensano che la politica sia il luogo del potere, necessario ma pericoloso. No: è il mezzo per portare soccorso, necessario e benefico, dunque, a condizione che colui che se ne impossessa sia non il politicante, ma il benefattore. I limiti e i controlli entro i quali occorre chiudere i politicanti, che possono sempre abusare del potere, sono semplicemente assurdi impedimenti se messi addosso al benefattore, per impedirgli di bene-fare ai bisognosi di lui.

Chi potrebbe resistere a cotanto amante, a un simile seduttore? Chi potrebbe a sua volta non riamarlo? Ma se non riama? Se l’amore non è corrisposto? Se non c’è corrispondenza ad un amore così grande da comportare il sacrificio della propria vita beata, è perché qualcuno odia.

«Noi non abbiamo in mente una Italia come la loro, che sa solo proibire ed odiare. Noi abbiamo in mente un’altra Italia, onesta, orgogliosa, tenace, giusta, serena, prospera, un’Italia che sa anche e soprattutto amare»

(S. Berlusconi, L’Italia che ho in mente, Mondadori, Milano, 2000, p. 280).

Il Kérygma

Immagine anteprima YouTube

 

 

Condividi Tag: , , , , , , ,

Vassalli

Vassallo, nella società feudale, era un uomo libero che si rendeva soggetto ad un signore mediante un contratto di vassallaggio tramite il quale l’uomo libero prometteva fedeltà ricevendone in cambio protezione. È il contrario dell’essere sovrani, significa essere al servizio, sudditi, uomini e donne non liberi.

La nostra Costituzione all’Art.1 recita:

«La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».

La Costituzione stabilisce quindi l’origine della sovranità come qualità appartenente ad ognuno di noi. La sovranità è sinonimo di potere, di dominio, di signoria, di autorità; qualità, queste, che stabiliamo essere in tutti gli appartenenti al popolo, ma che, come specifica la Carta stessa, vanno esercitate secondo limiti e regole. Il verbo ‘esercitare’ indica l’atto di fare esercizio, di tenere in attività, di conservare, di migliorare l’efficienza. Diversamente nella carta costituzionale potrebbe essere scritto: “La sovranità appartiene al popolo, che la concede nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Fosse scritta così, cosa cambierebbe? Sovrano sarebbe il popolo e, con le elezioni, il potere passerebbe a chi le vince, che quindi eserciterebbe la sovranità in nome e per conto del popolo.

Ma per la nostra Costituzione la sovranità non viene ceduta, resta una prerogativa del popolo che ne fa uso, la tiene in esercizio secondo regole stabilite; l’elezione è perciò strumento di amministrazione e non di delega.

Ad un primo sguardo la differenza appare sottile. È invece sostanziale. Sancisce la cesura tra l’essere signori e l’essere vassalli. In un caso – se nella Carta c’è scritto ‘esercitare’ – siamo e rimaniamo sovrani, liberi, signori; nel secondo caso – se nella Carta c’è scritto ‘concedere’ – lo siamo solo in principio.

Come dice infatti la definizione di vassallo, un uomo libero (sovrano) tramite un contratto (le elezioni) si assoggetta ad un signore in cambio della sua protezione. Il vassallaggio è atto si sottomissione passiva, non è imposto con atto autoritario, ma è la scelta di un uomo libero che rinuncia alla propria libertà in cambio di protezione. In questo si differenzia dalla schiavitù, dove invece la sudditanza viene imposta con la forza. Va da sé che lo stato finale è il medesimo. Nel periodo di vassallaggio/schiavitù si deve fedeltà al signore/padrone e se ne riceve in cambio il favore. Il ritorno alla libertà è nel caso dello schiavo, concessa dal padrone, nel caso del vassallo stabilita dal contratto.

Come detto la Costituzione italiana esclude il vassallaggio dal nostro ordinamento giuridico; ciò detto, non abbiamo alcuna garanzia che per questo non esistano forme di vassallaggio. Per capirlo dobbiamo prima interrogarci sul perché un uomo che è libero si debba assoggettare ad un signore, se, quindi, nel nostro Paese ciò possa avvenire e, nel caso, come faccia ad avvenire.

Il perché un uomo libero rinunci alla propria sovranità è oggigiorno percepibile in molteplici contesti. Prendiamo a titolo di esempio il tema del lavoro. Si sentono espressioni quali: “Il lavoro prima di tutto”… “Bisogna garantire il lavoro”… “Abbiamo salvato posti di lavoro”. Espressioni come queste si basano su un ricatto mascherato da diritto. Si parte da un sillogismo: se ognuno di noi ha diritto ai mezzi necessari a sostenere se stesso e la propria famiglia e il lavoro permette di avere tali mezzi, allora lavorare significa sostenere se stessi e la propria famiglia.  La logica sottesa è un sottile ricatto: avere un lavoro è amare se stessi e la propria famiglia. Ovvio quindi che per amore si deve accettare il lavoro, qualunque esso sia e in qualunque forma sia concesso. Parlo di ‘concesso’ perché: se il lavoro mi può essere dato o tolto da qualcuno esso non è più un diritto, ma un arbitrio. Parlo di ‘sillogismo’ perché: non avere un lavoro significa forse non amare se stessi e la propria famiglia?

Il lavoro e la valenza che esso ha nella vita della nostra società è un tema su cui si gioca la sovranità di ognuno di noi. Ma ce ne sono altri: ad esempio la salute, la sicurezza, la casa. Tutti temi che possono e spesso divengono criteri irrinunciabili, quindi vincenti rispetto alla sovranità. Si tratta di cose per le quali è lecito il vassallaggio. Viene prima infatti la salute o la sovranità? La sicurezza o la sovranità? Il lavoro o la sovranità?

Il vassallaggio è un modo di pensare, prima ancora che d’essere. È una forma mentis. Si contrappone al pensiero libero, che ha come fulcro l’idea di diritto, e vi oppone il concetto di favore. Mentre il cittadino si aspetta di ricevere un bene perché gli spetta di diritto, quindi in base ad un criterio di giustizia, il vassallo si aspetta di ricevere quel bene per dono, quindi in base ad un criterio di favore.

Il vassallo è anche portatore di un’idea di società diversa da quella del cittadino: per il vassallo la società è fatta di gerarchie, è quindi verticale, per il cittadino libero la società è fatta di pari ed è quindi orizzontale. Nella società del cittadino la sicurezza – per fare un esempio – discende dal diritto e dalla legge; sono le leggi, la loro neutralità e il loro rispetto a farlo sentire sicuro. Nella società del vassallo la sicurezza è invece determinata dall’ordine gerarchico; è l’essere suddito di un signore a farlo sentire al sicuro. In questo sistema, infatti, più potente è il signore di cui si è sudditi, maggiori garanzie si hanno; nello stato di diritto – un altro nome che assume la società del cittadino – più i cittadini sono eguali davanti alla legge, maggiore è la sicurezza di cui godono. Per il cittadino avere una società migliore significa aumentare il grado di eguaglianza ed equità del sistema; per il vassallo, al contrario, avere una società migliore, significa essere il più possibile vicino alla vetta della struttura. Il vassallo non ha diritti, perché cedendo la sua sovranità vi rinuncia scegliendo la logica della sudditanza; il cittadino, infatti, pretende e confida nel rispetto della legge, il vassallo chiede e confida nella generosità del proprio signore. Nel sistema feudale – un altro nome che assume la società del vassallo – la forza del sistema cresce con l’aumentare dell’arbitrio, al contrario nello stato di diritto la forza del sistema aumenta al crescere della legalità.

È evidente come il sistema clientelare, tanto in voga nelle nostre amministrazioni, sia un buonissimo esempio di vassallaggio, come lo sono il sistema delle visite mediche presso privati, o  il contratto imposto a Mirafiori. Ovviamente un altrettanto buon esempio di pratica di vassallaggio è il sistema mafioso.

Quanto in Italia funzioni l’uno o l’altro sistema non saprei dire. Probabilmente essi convivono.

Piuttosto ci si dovrebbe chiedere quale dei due sia migliore. A molti parrà che lo stato di diritto, se pure preferibile, sia utopistico e che quindi ci si debba rassegnare ad un sistema feudale, ma si sbagliano. Entrambi i sistemi infatti si reggono su regole e quindi entrambi possono essere messi in crisi.

La regola principale del sistema feudale è l’immutabilità delle posizioni sociali., ossia la diversità per diritto di nascita. Per questo nel sistema feudale il potere è ereditario. Quand’è che il sistema viene messo in crisi e salta? Quando un vassallo decide di liberarsi del proprio signore. È il caso della borghesia ottocentesca o del picciotto che decide di fare le scarpe al camorrista.

La regola principale del sistema di diritto è che tutti – Stato compreso – siano tenuti al rispetto delle leggi. Per questo nelle aule dei tribunali italiani sta scritto «La legge è uguale per tutti». Quand’è, in questo caso, che il sistema viene messo in crisi e salta? Quando un cittadino prende a ritenersi diverso dagli altri e quindi non soggetto come tutti alla legge. È il caso di Gaio Giulio Cesare, di Napoleone e di… avete capito.

È interessante notare in conclusione come la regola che regge un sistema coincida con il virus che mette in crisi l’altro. Il sistema feudale cade sotto i colpi del principio di uguaglianza; lo stato di diritto sotto i colpi del vassallaggio.

Nel prossimo post il racconto della salvezza: dal Vangelo secondo Davide.

Condividi Tag: , , , , , , , , , , , ,