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Il bene del Paese

30 Aprile 2013 Nessun commento

Riporto l’editoriale di Ezio Mauro apparso oggi sul sito de La Repubblica, l’originale e reperibile a questo indirizzo.

Il Paese prima di tutto, avevamo detto qualche giorno fa. Oggi possiamo aggiungere: in particolare nei momenti di difficoltà. Ma dove sta il bene del Paese? Proviamo a ragionare, se è ancora possibile fare una discussione serena anche con chi non si riconosce nel pensiero dominante di questa primavera italiana 2013. O almeno col tentativo di usare l’emergenza politica per un cambio di stagione generale e definitivo, che trucchi i conti della piccola storia italiana di questi anni. Non voltando pagina, perché questo accade spesso. Ma riscrivendola.

Tre punti mi sembrano non controversi. 1) – L’Italia è in difficoltà, la crisi dell’economia reale sta sopravanzando il rischio finanziario rivelandosi in tutta la sua gravità per le aziende, per i lavoratori, per la coesione sociale. 2) –  Un governo è indispensabile, e chi ha detto il contrario è uno sprovveduto in linea con i populismi vari, che campano spacciando risposte semplici a problemi complessi. La Spagna proprio in questi giorni ha negoziato con Bruxelles due anni in più di tempo per il rientro del deficit, dimostrando che un esecutivo con conti e programmi alla mano può farsi ascoltare in Europa fino a bucare il muro dell’austerity dogmatica. 3) – Dopo aver sfiorato il default finanziario, il sistema ha rischiato il default istituzionale.

E questo perché le tre minoranze uscite dalle urne anche grazie ad una legge sciagurata non sono state capaci di formare una maggioranza di governo, e addirittura non sono riuscite a dare forma all’istituzione suprema, la presidenza della Repubblica. Da qui il corto-circuito che ha portato tre partiti a chiedere a Napolitano di ricandidarsi perché il parlamento era bloccato, accettando nel contempo la richiesta del capo dello Stato di impegnarsi a far nascere un governo, due mesi dopo il voto. Quindi un governo di necessità, una situazione estrema, una soluzione eccezionale fortemente contraddittoria, perché trova unite questa destra e questa sinistra, che si sono contrapposte duramente per vent’anni.

Com’è chiaro, non sono le responsabilità che devono spaventare. Ci sono parecchie cose che non solo si possono, ma si devono fare insieme tra forze politiche molto diverse (Scalfari ha ricordato Togliatti) e riguardano le regole del gioco e le sue varie forme, quindi la legge elettorale, la riduzione del numero dei parlamentari, la correzione del bicameralismo perfetto, il taglio dei costi della politica: tutte misure che potrebbero ridare efficienza alla macchina democratica, ma soprattutto potrebbero avviare un recupero di fiducia nel rapporto in crisi tra partiti, istituzioni e cittadini. Anzi, le politiche di cambiamento e di novità (come la scelta da parte di Enrico Letta del ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge) sono l’unica strada per governare la contraddizione politica di questa maggioranza, provare a superarla nei fatti e guardare avanti, ricordando che la premiership viene dal Partito democratico e deve averne il segno.

dollari_vs_giustiziaIl punto in discussione è il tentativo ormai evidente, sistematico, insistito e molto diffuso di vendere un’alleanza di emergenza come uno stato d’animo del Paese, trasformando un governo di necessità in un’opportunità culturale per rimodellare la vicenda storica di questi anni. L’operazione cambia le carte in tavola, e assume un unico punto di vista – quello della destra, con le sue convenienze – come fondamento oggettivo della nuova fase. È evidente a tutti che Berlusconi, giunto terzo alle elezioni, arriva al tavolo delle grandi intese per scelta, con un’opinione pubblica che si sente premiata, una classe dirigente che appare miracolata. Dall’altra parte, il Pd – sconfitto politicamente nel momento in cui prevaleva numericamente – arriva alla condivisione di governo per obbligo, con un’opinione pubblica contraria e frastornata, un gruppo dirigente disorientato e diviso. La sinistra vuole governare per fare poche riforme necessarie, affrontare la crisi del lavoro, rinegoziare la stretta dell’austerity con l’Europa e andare al voto. La destra vuole rilegittimarsi come forza di governo dopo il fallimento del ministero Berlusconi, vuole istituzionalizzare la carica “rivoluzionaria” che aveva in passato portandola dentro il sistema, vuole sacralizzare la figura del suo leader ripulendola dalle troppe macchie degli ultimi anni attraverso un ruolo da padre della Repubblica: senatore a vita, o presidente della convenzione per le riforme. Dunque il governo può durare finche servirà a questo scopo.

In sostanza è come se la destra dicesse al sistema: l’anomalia berlusconiana (composta dalle leggi ad personam e dal rifiuto di accettare il giudizio dei tribunali, dal conflitto di interessi, dallo strapotere economico e mediatico, da una cultura populista che intende il potere eletto dal popolo sovraordinato rispetto agli altri poteri, dunque insofferente per natura speciale ad ogni controllo) è troppo grande e troppo permanente per essere risolta. Il sistema è stremato per lo scontro senza soluzione con la presenza fissa di questa anomalia. Dunque al sistema conviene costituzionalizzarla, introiettandola: ne uscirà in qualche misura sfigurato ma definitivamente pacificato, perché a quel punto tutto troverà una sua nuova deforme coerenza. Per questo, la grande coalizione è un’occasione irripetibile, guai a non sfruttarla ben al di là del governo.

Per arrivare fin qui, al vero scopo, è necessario lavorare sul “contesto”. Ingigantire l’aura di questo governo, parlando di “pacificazione”, di uscita dalla “guerra civile”. Bisogna cioè creare un senso comune accettato che ricrei le basi del confronto politico e rinneghi la lettura di questo ventennio, sia la lettura di destra che quella di sinistra (quella centrista o liberale non conta, perché è sempre al traino della cultura dominante in quel momento). E il senso comune è quello della grande omologazione nazionale, dove si scopre all’improvviso che destra e sinistra sono uguali, le vicende di questi ultimi anni non contano più per gli uni e per gli altri, non hanno lasciato segni nella storia, nella cultura istituzionale, nella piccola vicenda dei partiti, nel loro rapporto che pure è stato per lunghi tratti vivo, vitale e addirittura vivace con le opinioni pubbliche di base.

Ne discendono norme nuove di comportamento, inviti insistenti. Valga per tutti “il principio di realtà”, quindi non le culture di riferimento, gli interessi legittimi che si rappresentano, addirittura gli ideali diversi. No, conta solo la “realtà”, cioè il dato di oggi che prevale sul futuro e sulla storia italiana di questi anni. La politica si conformi. I giornali cambino addirittura tono, abbassando la voce, come se ci fosse un tono prefissato secondo le stagioni di governo, e i toni non fossero ogni volta la reazione a precise azioni dei protagonisti, dichiarazioni, proclami. Il risultato da ottenere è evidente: una grande amnistia culturale deve scendere sul ventennio, non lo si deve più ricordare per non giudicarlo, tutto è alle spalle, tutto si confonde, gli statisti non sono a targhe alterne ma in servizio permanente effettivo.

E qui, il nuovo senso comune ben coltivato porterà all’esito finale di tutta l’operazione: la fine del giudizio penale ancora in corso per definitiva autoconsunzione, in quanto il nuovo clima dominante di conciliazione governante prevarrà sul clima che pretendeva giustizia, o sosteneva per anni la pretesa di volere addirittura la legge uguale per tutti. Giuliano Ferrara lo ha detto lucidamente: la strada maestra per Berlusconi è spingere per la grande politica, “obliterando in questo modo ogni valore morale delle condanne che lo riguardano”. Vale a dire che il nuovo senso comune spodesterà quello precedente, vivo per anni, maggioritario o di minoranza secondo le fase, e tuttavia vivo. Alla fine si presenterà tutto questo come una vittoria della politica, mentre è un’altra cosa. L’abuso semantico e politico, dunque culturale, del concetto di governo di salute pubblica si estenderà prosaicamente alla salute privata di qualcuno. E quando questo clima sarà instaurato, potranno venire come al solito le norme ad personam, visto che a quel punto non sembreranno più un vulnus, ma un esito naturale e accettato.

Nella lettura a reti unificate che i giornali danno della grande intesa, si vedono tutti i segni di questa costruzione complessa che si richiama alla “realtà”, ma che configura un’iper-realtà politica di comodo, addirittura ideologica. È una lettura dalla quale ci discostiamo. Si possono – si devono – fare le cose che servono al Paese, ma salvando il vero principio di realtà, che consiste nel preservare le diverse “visioni sostantive” del Paese, le identità distinte di destra e sinistra, le letture degli ultimi vent’anni che sono state fatte in forme tutt’affatto difformi nei due campi, le due diverse idee dell’Italia. Qui c’è la base di un’onesta responsabilità condivisa, proprio perché qui c’è la coscienza dei limiti dell’emergenza, il rispetto delle pubbliche opinioni, la consapevolezza del fatto che il Paese ha bisogno di una maggioranza e di una minoranza, a cui si deve tornare appena i nodi principali sono stati sciolti. Qui, nelle differenze occidentali, nel rispetto onesto delle diversità, sta la base del futuro scontro elettorale, della ripartenza del Paese e del confronto democratico. Ecco perché tutto questo ci sta a cuore. Perché non tutto è emergenza, e nelle differenze culturali sta il bene del Paese.

Dizionario del citadino: “progressista/reazionario”

26 Settembre 2009 Nessun commento

Progresso, dice il dizionario Devoto-Oli, significa andare avanti. In politica, dico io, significa avanzare verso qualcosa di meglio di quel che c’è. E in una società, ciò che è meglio è ciò che permette più libertà e più giustizia. In altre parole, ciò che rafforza la capacità di scegliere delle persone, nonché la possibilità di orientare la propria vita come meglio credono… anche a rischio di sbagliare. Non dimentichiamo che la libertà di poter sbagliare è il più rischioso dei nostri privilegi, pur restando a pieno titolo un privilegio.

I due più grandi ostacoli al progresso sono la miseria e l’ignoranza. Nessuno può essere libero nella miseria, che è l’ingiustizia più grande che possa esistere in seno a società ragionevolmente prospere. In natura le nostre carenze sono dovute di norma al caso, ma nella società nessuna povertà è casuale o inevitabile. Forse non tutti possono essere ricchi – perché non tutti apprezzano lo stesso tipo di ricchezze, fortunatamente – ma nessuno può essere costretto ad essere povero, neppure se ciò dipende dai suoi molti peccati. Quanto all’ignoranza, basti dire che nessuno sarà capace di avanzare verso il meglio se non sa che cosa è meglio per sé e per gli altri. Le grandi disuguaglianze del nostro secolo sono quelle che separano coloro che possono formarsi accedendo alle fonti della conoscenza da quelli che per tutta la vita dipendono dalle informazioni che ricevono da altri.

Cosicché sono progressisti colori che si battono contro la miseria e l’ignoranza e reazionari quelli che le favoriscono per qualche motivo. È una questione che ha poco a che fare con la tradizionale divisione fra destra e sinistra. Si può essere reazionari di destra, quando si ritiene che la miseria sia conseguenza diretta del mercato –  che premia i migliori e punisci i pigri e gli imbranati – e che l’ignoranza derivi dal fatto che certe persone non meritano di essere educate come le altre. Ma si può essere anche reazionari di sinistra, quando si arriva a credere che la lotta alla miseria consista nell’eliminare i ricchi, invece che i poveri, o che evitare l’ignoranza significhi insegnare a pensare all’umanità piuttosto che individualmente, uniformandosi al pensiero collettivo e rinunciando al dissenso. Non dimentichiamoci che in Italia ci sono ancora ammiratori del regime di Fidel Castro o dei tiranni della Corea del Nord, che danno lezioni gratuite di «progressismo» ai fessi che li stanno ad ascoltare… La cosa più importante di tutte è mettere in chiaro che il progresso non dipende da nessun meccanismo provvidenziale della storia, come credevano alcuni illuministi un po’ troppo ottimisti (Condorcet fu il più illustre di loro), ma che richiede il nostro sforzo consapevole, la nostra capacità di opporci al peggio per fare spazio al meglio. E che in qualunque momento c’è il pericolo di tornare indietro o di smarrirsi: nessuna conquista della civiltà è inamovibile, tutte possono essere annullate da nuove tirannie o cadere nell’oblio dell’incuria. Essere progressisti non significa farsi guidare dal presunto pilota automatico del progresso – non tutto il nuovo è progressista, nient’affatto – bensì essere disposti a combattere le novità negative e perfino a recuperare ricchezze sociali perdute, mentre si cerca la strada verso il futuro. Progredire significa innovare, ma anche conservare ciò che si è ottenuto.

Uguali e diversi

8 Marzo 2009 4 commenti

«Una grande massa di uomini non hanno mai avuto voce nella società, proprio perché non sono stati messi in condizione di esprimersi, di avere la padronanza del linguaggio. Oggi le cose non sono affatto cambiate. Il benessere e i vantaggi che il progresso moderno offre, non bastano a eliminare le ingiustizie di cui soffrono coloro che sono soltanto sfruttati: bisogna dar loro la parola, il senso di uguaglianza di fronte a chi sa parlare…»

(Intervista ad Agostino Ammannati, in Dalla parte dell’ultimo, Neera Fallaci – 1974)

Oggi proverò a dirvi perché secondo me il primario obiettivo del nostro partito non sono economia, ospedali, strade, sicurezza, ecc., ma rendere gli italiani dei cittadini. È evidente che si tratta di una cosa che si sarebbe dovuta fare già da tempo, ma che evidentemente o non è stata fatta, o nelle modalità con cui la si è tentata, non ha funzionato. Sta di fatto che un paese per essere democratico, come detto in altre occasioni, non deve solo avere istituzioni democratiche, ma deve soprattutto avere dei cittadini. Perché dico che non abbiamo dei cittadini? Ho già accennato a questo fatto in “Malati di shopping“. Il fatto di poter comprare, almeno in linea teorica qualunque cosa, ci ha illusi d’esser diventati tutti uguali; il mercato non fa distinzioni di razza, sesso, età, cultura, rende tutti uguali.

«La scelta del consumatore è oggi un valore di per sé; l’attività di scegliere conta più di ciò che viene scelto, e le situazioni vengono elogiate o censurate, apprezzate o stigmatizzate a seconda della gamma di scelte in vetrina. […] Laddove la risorse abbondano si può sempre sperare, a torto o a ragione, di “sopravvivere” o “anticipare” le cose, di poter tenere il passo dei sempre mutevoli obiettivi; ciò potrebbe indurre a sottovalutare i rischi e l’insicurezza e ad assumere che la profusione di scelte compensi abbondantemente i disagi del vivere al buio, di non essere mai sicuri di dove la lotta abbia fine o se avrà fine.

(Zygmunt Bauman, Modernità liquida – 2000)

Un tempo le differenze tra ricchi e poveri erano evidenti, sia dal punto di vista del potere di acquisto, sia, e soprattutto, dal punto di vista culturale. Il prete, il dottore, il farmacista, non erano delle autorità per ragioni economiche, lo erano principalmente per ragioni culturali. La povertà era soprattutto povertà intellettuale, mancanza di mezzi e di strumenti per conoscere, per interpretare, per scegliere. Chi abita la campagna ha sentito certamente racconti che parlano di ossequiosi inchini al signore, di come ci si sentiva diversi, inferiori, rispetto a chi aveva studiato, rispetto a chi conosceva. Mi si permetta una breve divagazione: non tutti sanno che la parola “ciao”, che quotidianamente milioni di italiani usano per salutarsi deriva dal veneziano: s-ciao, s-ciavo ‘(sono suo) schiavo’, era il saluto che i contadini erano usi fare al passaggio del signore. Non si trattava di deferenza o di riguardo, ma di religiosa soggezione a chi conosceva. È la cieca obbedienza (1) di chi ignora, quando si trova di fronte a chi sa. Non a caso uno dei sinonimi di conoscere è appunto “padroneggiare”. Ma qui sta la differenza tra il cittadino e il suddito. Chi conosce è padrone, sovrano; chi non conosce, chi ignora è suddito.

Art. 1.

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.

La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

(Costituzione Italiana)

Basta la costituzione a renderci sovrani? O è forse la carta di identità, o la tessera elettorale a renderci cittadini? Se non tutti sono sovrani, ma solo alcuni lo sono, mentre altri, la maggior parte, sono sudditi, allora non è vero che si è in una democrazia, non è vero che si è in una repubblica, ma solo che si ha un ordinamento repubblicano. È l’uguaglianza dei cittadini a rendere democratico uno stato; questo significa la scritta che campeggia nei tribunali “La legge è uguale per tutti”. La questione è quindi questione di giustizia. Non c’è giustizia, se c’è chi è padrone e chi è servo.

La domanda, che ormai i più si aspetteranno, è: c’è giustizia in Italia? E cioè: ci sono ancora servi? La mia risposta sarà altrettanto attesa. Secondo me ci sono tanti, forse più servi di un tempo, secondo me non c’è giustizia, e la cosa interessante è che per dirlo non ho bisogno di rifarmi al presidente Berlusconi. Non c’è giustizia, perché ci sono uomini e donne in Italia che ignorano il loro ruolo, che ignorano le loro responsabilità, che ignorano i loro doveri, che ignorano il peso del loro voto. Vorrei precisare che l’esistenza – secondo me in numeri smisurati – di questi uomini non significa la totale mancanza di cittadini, ma che anche chi ha coscienza di esserlo, finisce per non poterlo essere. Sulla carta siamo tutti cittadini, ma nella realtà rischia di non esserlo nessuno. Mi spiego: è come se tutti avessimo una formula1, ma solo pochi fossimo dei piloti. Immaginate il caos alla partenza: chi spegne il motore, chi va in testa coda, chi si schianta contro chi lo precede. Finisce che anche chi è pilota, per quanto bravo, si trova bloccato e impotente. Questa è giustizia al ribasso. Rende tutti uguali, perché nessuno ha nulla. Può sembrare democratico, ma non lo è. Se abbatto un sovrano (ad es. il re), ma non rendo tutti sovrani, non ho creato una democrazia, ho solo creato i presupposti affinché si instauri, al posto del vecchio re, un nuovo tiranno.

Certo, la fame è una ingiustizia, il non avere accesso a cure sanitarie è una ingiustizia, in non avere un lavoro dignitoso o addirittura non averlo è una ingiustizia. Esistono centinaia di forme di ingiustizia, e ognuno di noi ne avrà subita qualcuna e di qualche altra si sarà giovato. C’è una forma di ingiustizia che secondo me, però, va combattuta prima delle altre: l’ingiustizia culturale, cioè l’ignoranza. Quell’ignoranza che sta all’origine del fatto che in Italia, nonostante ci sia una facoltà universitaria ogni piè sospinto, ci siano pochissimi giovani che vogliano occuparsi di politica. Mancano cittadini perché c’è ingiustizia, c’è ingiustizia perché c’è ignoranza, c’è ignoranza perché c’è idiozia.

«La vita di ogni essere umano è irripetibile e insostituibile: con chiunque di noi, per umile che possa essere, nasce una avventura la cui dignità sta nel fatto che nessuno potrà mai tornare a viverla nello stesso modo. Per questo sostengo che ognuno ha il diritto di godersi la vita il più umanamente possibile, senza sacrificarla né agli dèi né alla patria e neppure alla causa dell’umanità sofferente. Ma d’altra parte, per essere pienamente umani, dobbiamo vivere fra gli umani, ovvero non solo come gli umani, ma anche con gli umani. Insomma dobbiamo vivere in società. Disinteressarsi alla società umana, che oggi, mi sembra, ha le dimensioni del mondo intero e non più quelle del quartiere, della città o della nazione, significa comportarsi con la stessa intelligenza di chi, trovandosi a bordo di un aereo pilotato da un ubriaco, minacciato da un dirottatore pazzo armato di una bomba e con un motore in avaria (puoi aggiungere, se vuoi, qualche altra circostanza terrificante), invece di unirsi agli altri passeggeri sani di mente per salvarsi, si mette a fischiettare guardando fuori dal finestrino o reclama il vassoio del pranzo. Gli antichi greci (gente sveglia e intelligente che, come sai, ammiro in modo speciale) definivano chi non si occupava di politica con il nome di idiótes; questa parola significava persona isolata, che non ha nulla da offrire agli altri, ossessionata dai piccoli problemi di casa sua e in fin dei conti alla marcé di tutta la comunità. Da quell’idiótes greco deriva il nostro idiota attuale, e non c’è bisogno che ti spieghi cosa vuol dire».

(Politica per un figlio, Fernando Savater, 1993)

Mancano cittadini perché c’è ingiustizia, c’è ingiustizia perché ci sono idioti, ci sono idioti perché c’è ignoranza. La priorità è quindi formare coscienze civiche, formare dei cittadini. Se c’è idiozia il resto non serve a nulla. Gli abitanti dei paesi del blocco sovietico avevano lavoro, casa assicurata, cure mediche, ciò che non avevano era la democrazia, non erano veri cittadini, e questo ha finito per renderli poveri, anche economicamente. Il lavoro, la casa, le strade, gli ospedali, la sicurezza le si fanno anche in regimi non democratici, a volte meglio (vedi sistema sanitario di Cuba), ma non sono mai giusti. Qualcuno mi dirà: “Bei discorsi, ma adesso le priorità sono altre!”

In questo periodo di crisi finanziaria, economica e sociale leggo e sento, sempre più spesso, di discorsi che invitano a posporre le regole, perché si è in un momento difficile. L’idea che si veicola è quella secondo la quale, di fronte all’emergenza, le regole, che dovrebbero aver a che fare con la giustizia, possono essere soprassedute. In sostanza, le regole varrebbero solo quando tutto va bene, quando le cose vanno male, si invita a non seguirle. La questione è quanto meno interessante. “Conviene bene, che, accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi” diceva Macchiavelli nei suoi Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (3), ma in politica, e qui Machiavelli si ingannava fatalmente, sono i mezzi che devono giustificare il fine.

Lo scopo, e quindi l’intrinseca misura della politica è la giustizia. Se una politica, quindi un partito, non persegue la giustizia, non ha motivo di esistere, e la ingiustizia da colmare nel nostro paese, è la mancanza di cittadinanza degli Italiani, la loro idiota ignoranza civica.

C’è bisogno di tornare a scuola! Prosegui la lettura…