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Vecchi

11 Marzo 2013 Nessun commento

Non ci sentiamo da un bel po’ di tempo, ma per fortuna il cervello ha continuato a macinare. Mi piacerebbe riprendere il discorso e riparto da un tema trattato in un pecedente post. CI ervamo lasciati al tempo con un discorso sulle conseguenze dell’accidentalità dell’esperienza umana. Dicevamo di come per l’uomo del nostro tempo la domanda sul senso e sul fine del proprio esistere abbia una valenza puramente soggettiva. Tutto ciò, come visto in “Speranza”, fa dell’esistere odierno una esperienza solitaria, senza una storia, ma anche senza seguito. Faccio un passo avanti.
Quanto detto potrebbe indurre a pensare che l’uomo contemporaneo sia attraversato da un senso di profondo sconforto e pessimismo. L’immagine è quella di soggetti errabondi, impossibilitati dalla natura stessa del loro viaggio ad avere compagni; costretti a percorrere sentieri vergini; senza la speranza di poter lasciare alcuna eredità del proprio peregrinare, né tanto meno del proprio approdo.
Viene spontaneo, di fronte ad una tale descrizione, essere colti dalla malinconia e dallo scoramento, ma non sono certo questi i sentimenti che attraversano l’uomo contemporaneo. Egli non vive la sua solitudine nello sconforto, ma nel più totale incanto; il suo isolamento, anziché motivo di depressione, è ragione di esaltazione. Se infatti l’uomo non appartiene più ad una storia, non ha più alcuna meta che lo trascende, non ha nulla da tramandare, significa che egli stesso, come singolo, è l’attore unico dell’unico atto, dell’unica storia. È l’egocentrismo, testualmente parlando, assoluto. Se non vi è una “grande” storia in cui trovare il proprio posto, allora la propria storia diventa l’unica. Se non vi è una meta comune, il mio percorso, la mia meta, il mio fine divengono l’unico fine. Se non vi è speranza di un valore condiviso che accomuni la nostra esperienza, allora il valore che ognuno da al proprio esistere diviene l’unico valore a cui attenersi.
Queste mie analisi non devono essere prese in termini moralistici. La mia non è una accusa all’egocentrismo e al soggettivismo imperanti. Se essi esistono e si manifestano, è evidente che sono accompagnati da una ragione, ed è quella che mi interessa sviscerare. Il fatto che la loro esasperazione metta a rischio la convivenza umana, la sopravvivenza della specie e lo stesso ecosistema in cui viviamo, mi pare talmente banale da non doverci perder tempo (1). Ciò, ribadisco, non significa che io ne faccia una questione morale, cioè non credo che la spiegazione, e quindi la soluzione, di queste questioni abbia a che fare con lo smarrimento ed il conseguente recupero di una qualche morale. Semmai ci si dovrebbe chiedere quale etica possiamo sperare da un uomo che è solo. Allora, prima di fare la morale, io mi propongo di andare un po’ a fondo di questo uomo; prima di chiedergli scelte morali, intendo interrogarmi di quale etica egli possa essere capace.
Riprendo allora le mie speculazioni sull’uomo contemporaneo. Vi descrivo alcuni segni di questo egocentrismo di cui andavo accennando poc’anzi. Per farlo, spero che ciò non induca all’abbandono di questa lettura, dovrò chiamare in causa il tema che io ritengo discriminante per il nostro ragionare: il tema ella morte.
VecchirttoÈ infatti nei confronti della morte che la presa di coscienza della propria accidentalità assume i tratti egocentrici a cui ho accennato. La morte è misura e limite della vita. È la cosa di cui possiamo andare più certi, anche se non ne possiamo conoscere i tempi e i termini esatti. È paradosso biologico, dato che esiste per dare spazio al susseguirsi della vita. È paradosso umano perché è nella sua finitezza che l’uomo prende coscienza del proprio esistere. È paradosso per l’uomo contemporaneo che l’allontana proprio perché è l’unica certezza a cui può aspirare.
La morte non è mai stata auspicabile; per quanto le religioni e i miti abbiano cercato di renderla meno buia, arrivando in alcuni casi a vederla come momento di passaggio, essa non ha mai smesso di far paura. Ciò non significa che non venisse compresa in un senso.
Se la propria vita era vista all’interno di una storia, di un cammino più grandi, la nascita e la morte diventavano i meccanismi attraverso cui questo percorso si spiegava. All’interno di una prospettiva di questo tipo, diventava logico attraversare la propria vita come una parabola. Certo, non si sapeva l’ora della propria fine, ma forse proprio per questo diventava essenziale assolvere il proprio compito, fare la propria parte il prima possibile. Farsi trovare pronti dalla morte significava arrivarci dopo aver compiuto il proprio dovere. Essa era sempre presente, come uno spettro, pronta dietro l’angolo, per questo non c’era tempo da perdere, bisognava dare senso a quel poco tempo che si aveva. Bastava una influenza, una infezione e il tempo scadeva.
Oggi non è più così. Per mezzo della medicina e delle tecniche che la scienza mette a disposizione, la morte non è più dietro l’angolo, pronta a colpire, ma, anche se lo è, abbiamo i mezzi e gli strumenti per fermarla. O almeno ci dilettiamo nel pensarlo, dato che sia il fatto che la medicina e le scienze siano all’origine dell’innalzamento della vita media delle persone, sia il fatto che la morte sia procrastinabile all’infinito sono entrambe delle favole (2). Vero o meno che sia il contributo della medicina e delle scienze nel curare, la diffusa idea che esse siano in grado di guarire le malattie ha rivoluzionato l’approccio dell’uomo alla morte. Essa, da compagna di viaggio, si è trasformata in imbarazzante presenza da esorcizzare e allontanare, possibilmente da debellare.
Ora a molti questa rivoluzione potrà apparire positiva; potrà ritenere un bene quanto viene fatto e speso nell’inseguire l’idea di scongiurare la morte; ad ognuno il proprio giudizio. Ciò che ci preme in questo scritto è vedere come la rivoluzionata idea della morte si fonda con la visione accidentale della vita producendo un tipo di uomo che non s’era mai visto prima. Lo chiamerò per convenzione ‘l’ottantenne’, ma sia ben chiaro che egli ne è solo il massimo esempio, in questa descrizione ci cadiamo tutti. Perché prendo ad esempio l’ottantenne? Perché, a mio avviso, è nei discorsi e negli atteggiamenti di molti ottantenni e giù a seguire, che si scorgono gli effetti del connubio di cui sopra. Mai sentito espressioni come “La vecchiaia è una brutta malattia”? Ve ne elenco altre: “terza età”, “sentirsi giovanili”, “essere ancora in gamba”, “scoprire una seconda vita”.
Queste frasi sono indice di una incapacità (comprensibilissima ma pur sempre incapacità) di fare i conti con il senso del proprio esistere. Raccontano di persone che sono vecchie e che non sanno accettare il fatto di esserlo e si nascondono dietro parole come anziano, terza età, perché non accettano l’essere vecchi, la considerano invece una malattia, una sorta di ingiustizia, di sfiga che li ha colpiti. Vivono la vecchiaia, la perdita di tono muscolare, di resistenza fisica, di freschezza mentale, come un fatto anomalo, un malanno; quelli che sono i segnali dello stato di salute nell’età senile, divengono i sintomi di una malattia degenerativa chiamata appunto vecchiaia.

(1) Questo, lo so, non toglie che ci siano dei farfalloni, non so se in buona o cattiva fede, che vanno predicando l’inesistenza di problemi come lo sfaldamento dei legami sociali e comunitari, il sovraffollamento umano del pianeta, l’esaurimento delle risorse naturali, ecc.
(2) Per chi facesse fatica ad accettare queste mie considerazioni o per chi avesse intenzione di approfondire segnalo Nemesi medica di Ivan Illich e Che cosa vuol dire morire a cura di Daniela Monti.

Speranza

23 Novembre 2010 1 commento

Cosa significa essere giovani? Semplice, significa vivere quel periodo della vita che sta tra l’età dell’infanzia e l’età adulta. La nostra tendenza a semplificare le cose ci porterebbe subito a farne una questione di età, e di conseguenza a stabilire quali sono gli anni della fanciullezza, quelli della gioventù, quelli della maturità ed infine quelli della vecchiaia. Dicevo che saremmo estremamente semplicistici a ridurre il tema ad una questione di periodi temporali; anzi, direi che ci stiamo sbagliando, perché stiamo mettendo assieme cose che assieme non vanno. Il primo problema è accettare che la nostra misura di quella cosa che chiamiamo tempo è una pura invenzione. Gli anni, i minuti, i secoli, ecc. non esistono, se non come convenzioni umane.

Se prendiamo a modello la teoria darwiniana la presenza umana sulla terra è un fatto accidentale. Nell’economia della natura la presenza umana non è un punto di arrivo della vita, il culmine del processo evolutivo, ma solamente una delle tante forme che essa ha assunto. Per la natura ciò che sembra contare è il perpetrarsi della vita (organica), non quindi della vita umana, ma semplicemente della vita. Se domani la specie umana dovesse scomparire a causa di un virus o di un batterio, sarebbe il trionfo della vita. La verità sul come l’uomo sia comparso sulla terra, se creato da Dio o disceso da un primate, non è la vera questione che ha opposto Darwin ai suoi detrattori, ma il ruolo dell’uomo nel nostro mondo. Se la Bibbia contenga o meno una descrizione puntuale degli eventi che hanno dato inizio alla vita, è questione collaterale. Il vero problema, inquietante per la nostra idea antropocentrica dell’universo, è che la teoria dell’evoluzione descrive un mondo in cui l’uomo c’è per caso, potrebbe non esserci mai stato, e potrebbe non esserci più. La prima cosa a cadere è l’idea di progresso, e con esso di tutti i concetti correlati: avanzamento, sviluppo, miglioramento, l’idea stessa di civiltà cambia di significato. Detto come lo direbbero i filosofi, siamo accidente.

Dire che l’uomo è accidente significa demolire una serie di preconcetti su cui si basa buona parte del nostro approccio all’esistenza. Ma perché parlo di esistenza? Una visione antropocentrica dell’universo, che tende cioè al leggere ogni fatto e avvenimento in funzione dell’esistenza umana, fornisce ad ogni uomo una finalità eteronoma al proprio esistere. In questa prospettiva l’uomo è fine, è senso, è verso, è valore, è significato per sua stessa natura. Egli esiste come compimento di un cammino che ha portato a lui e come tappa (fondamentale) di un processo che non può che mirare a qualcosa di migliore.

Se accidente, invece, l’uomo si trova costretto a dover dare e trovare un senso, un fine, una spiegazione, a dare un valore e un significato al proprio esistere. Non può contare su una ragione al di fuori di sé nella quale rifugiarsi, ma deve darsi il proprio senso. Addirittura l’essere accidente mette in discussione l’idea stessa che ci debba essere un senso, dato che l’esistenza della specie umana, e tanto più quella del singolo, non è che un caso fra i molti possibili. E così l’uomo moderno, se anche dovesse trovare un proprio senso, questo non potrebbe che valere per per il singolo, dato che sarebbe impensabile l’estenderlo al resto dell’umanità.

Prima l’uomo cercava il suo posto nel cammino dell’umanità. E ora che l’umanità non va più da nessuna parte? Se qualcuno crede di dover avere una meta, un posto da raggiungere, non potrà che andarci solo; senza sperare di trovare sentieri già tracciati e senza poterne tracciare alcuno; senza il racconto di una terra promessa che lo aiuti a riconoscerne i tratti e senza le parole per poterla un giorno raccontare.

Pillola azzurra, fine della storia. Pillola rossa, resti nel paese delle meraviglie, e vedrai quant’è profonda la tana del bianconiglio

17 Maggio 2008 3 commenti

Non so come dare ragione di quanto provo; è come se fossi rimasto in debito di fiato. L’ultimo post – sì lo so, era lunghissimo; non devo abusare della vostra pazienza – ha lasciato anche me senza parole. Il fatto è che per primo faccio fatica a portare il peso dei concetti che ho espresso. Mi rendo perfettamente conto di aver fatto delle affermazioni che sono sovversive. Mettere in discussione il fatto che che la vita debba avere un senso è difficile da mandar giù; io, almeno, faccio fatica. Sono consapevole che sto zappando a pochi centimetri dai miei piedi e che rischio grosso, ma poi penso che qui sta la novità di generazionevaslina.it e del movimento che vorremmo farne.

Il concepire la vita come una missione, come una qualcosa dotato di senso, come una strada che porta ad una meta, ha sicuramente il suo fascino, ma la sua ragione non va oltre. Il fascino di una concezione non può, da solo, dare ragione di una scelta di vita. Il fascino che ha il pensare che siamo parte di un disegno, che il nostro esserci è necessario, che la nostra vita serve, non dà ragione di una vita, semplicemente la struttura in modo che chi la vive la senta “vera” solo se raggiunge uno scopo. Quanto questo scopo, poi, sia reale, quanto abbia effettivamente valore per chi lo persegue, se sia scelto od imposto, se valga il sacrificio che richiede, se, appunto, paradossalmente, porti da qualche parte, questo non è messo in discussione.

Ma è poi vero che la vita è questo? È poi vero che si deve andare da qualche parte?

«No. La vita non mi ha disilluso. Di anno in anno la trovo sempre più ricca, più desiderabile e più misteriosa – da quel giorno in cui venne a me il grande liberatore, quel pensiero che la vita potrebbe essere un esperimento di chi è vòlto alla conoscenza –  e non un dovere, non una fatalità, non una fede. […] La vita come mezzo di conoscenza. Con questo principio nel cuore si può non soltanto valorosamente, ma anche gioiosamente vivere e gioiosamente ridere

(F. Nietzsche, La gaia scienza (1882)

La vita non ha un senso, inteso come direzione, meta, scopo, ma ciò non toglie che essa deve avere un significato, dobbiamo solo imparare a capire che si tratta di un significato che spiega, apre, manifesta. Il senso, lo scopo rimandano ad un finale, ad un epilogo che darà ragione di tutto. Il significato, la spiegazione vanno colti nella loro valenza di presente.

La ragione della vita sta nel fatto di attraversarla, non nel portarla da qualche parte.

Il cammino del pellegrino ha valore non perché raggiunge la meta, ma perché è cammino; certo, da qualche parte si deve decidere di andare, ma non è il dove si arriva a far la differenza, è il chi siamo diventati nel corso del viaggio che conta.

Adesso vi dico perché siete qui: siete qui perché intuite qualcosa che non riuscite a spiegare. Sentite solo che c’è. È tutta la vita che avete la sensazione che ci sia qualcosa che non quadra; non sapete bene di che cosa si tratti, ma l’avvertite. È un chiodo fisso nel cervello, da diventarci matti. È questa sensazione che vi ha portato a generazionevaselina.it.

Voi sapete di che cosa sto parlando!? Del mito del fine. Vi interessa sapere di che si tratta? Che cos’è?

Il mito del fine è ovunque, è intorno a voi; anche adesso nella stanza in cui siete. È quello che vedete quando vi affacciate alla finestra o accendete il televisore. Lo avvertite quando andate al lavoro, quando andate in Chiesa, quando pagate le tasse. È il mondo che vi è stato messo davanti agli occhi per nascondervi la verità

Tutto, se ci pensate, è volto al raggiungimento di qualche fine, perché ci hanno insegnato che è nell’avere un fine il valore delle cose. Questo è il nostro Matrix: il non vivere l’oggi, per vivere un domani; il credere che un giorno tutto avrà senso; il misurare le cose sul loro effetto; il rifiuto di ciò che non serve (e quindi non ha scopo).

E allora? Pillola azzurra o pillola rossa? Vi offro la verità, ricordatelo. Niente di più.

Immagine anteprima YouTube

PS. So che molti mi chiedono più concretezza; quando inizieremo a parlare di cose più concrete; quando si inizierà a parlare di partito. La prima risposta è che non c’è nulla di puù concreto che mettere le fondamenta di ciò che si vuol costruire. La seconda è che se vogliamo essere il partito del nuovo, dobbiamo dare forma al nuovo.