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The Day After Tomorrow

11 Luglio 2013 Nessun commento

Di seguito riporto l’editoriale del Corriere della Sera apparso l’11 luglio 2013, il giorno dopo la richiesta di sospensione dei lavori del parlamento da parte del Pdl. La richiesta di sospensione, concessa da Partito Democratico, è l’atto di protesta del Partito di Belusconi in risposta al fatto che la cassazione ha fissato la data della sentenza sul processo Mediaset.

Il giorno nero della RepubblicaAntonio Polito, Corriere della sera

Se la fissazione della data del processo a Silvio Berlusconi ha prodotto un giorno di stop dei lavori parlamentari, che accadrà il giorno della sentenza? Nonostante alla fine abbiano prevalso quelli con la testa sulle spalle, e l’Aventino minacciato da una parte del Pdl sia stato derubricato a semplice pausa di poche ore, ieri abbiamo assistito alla prova generale di ciò che può accadere al nostro Parlamento nelle prossime settimane. Ostaggio di vicende extraparlamentari, sulle quali né le Camere, né il governo e nemmeno il capo dello Stato possono alcunché. Eppure immediatamente investito, e potenzialmente dissolto, dallo tsunami politico che quelle vicende giudiziarie sono in grado di provocare. Gli attori visti ieri in scena non rassicurano sull’esito. In troppi puntano a trarre un vantaggio di parte dalla rovina comune. Quelli che nel partito di Berlusconi sfruttano la drammaticità della sua ora per acquisire benemerenze e colpire l’ala governativa. Quelli che nel Pd, per lo piu renziani, non vedono l’ora di affondare Letta magari in nome di una riscoperta purezza antiberlusconiana. E quelli che, stando all’opposizione, pensano che il loro compito sia fomentare il tanto peggio tanto meglio. Non si spiegano altrimenti la teatralità e al contempo l’incongruenza delle parole e dei gesti cui abbiamo assistito. Beppe Grillo, mentre urla che «l’Italia è un Paese in macerie» e che «non c’è più tempo», chiede come rimedio lo scioglimento del Parlamento e nuove elezioni, perché per un’altra rissa elettorale c’è sempre tempo. I suoi senatori, in un gesto forse inconsapevolmente peronista, si trasformano in descamisados togliendosi in aula la giacca e la cravatta e fischiando come allo stadio la squadra avversaria. I cosiddetti falchi del Pdl, nelle cui mani è rimasto il partito dopo che la sua parte migliore è emigrata al governo, confondono la Cassazione con un Tribunale speciale e invocano il ritorno alle urne come una nuova Resistenza. Certo, la decisione presa ieri in Parlamento di sospendere i lavori per un giorno, piccolo surrogato concesso al Pdl in rivolta per l’imminenza della sentenza Berlusconi, è fuori dal comune (anche se è prassi per i congressi di partito). Ma purtroppo è l’intera situazione in cui ci troviamo ad essere fuori dal comune, come testimonia la visita serale di Enrico Letta al Quirinale. Comunque la si veda, se ne dia la responsabilità all’imputato Berlusconi che se l’è cercata o ai magistrati che lo perseguitano, la vita e l’operatività del Parlamento e del governo sono infatti costantemente in pericolo. E questo proprio mentre l’Italia arranca, è come schiacciata dal macigno della crisi, tenta disperatamente di rialzarsi, viene di nuovo declassata. Il resto del mondo ci guarda attonito, attendendo di capire se questo grande Paese ha deciso di suicidarsi. Dal pasticcio in cui si è cacciata la politica c’è una sola via di uscita: assumersi ciascuno una responsabilità collettiva. E c’è solo una bussola: attenersi scrupolosamente alle regole dello Stato di diritto, inventate proprio per tenere separati i poteri. Stiamo camminando sul ciglio del burrone. Per favore, smettetela di spingere.] Se la fissazione della data del processo a Silvio Berlusconi ha prodotto un giorno di stop dei lavori parlamentari, che accadrà il giorno della sentenza? Nonostante alla fine abbiano prevalso quelli con la testa sulle spalle, e l’Aventino minacciato da una parte del Pdl sia stato derubricato a semplice pausa di poche ore, ieri abbiamo assistito alla prova generale di ciò che può accadere al nostro Parlamento nelle prossime settimane. Ostaggio di vicende extraparlamentari, sulle quali né le Camere, né il governo e nemmeno il capo dello Stato possono alcunché. Eppure immediatamente investito, e potenzialmente dissolto, dallo tsunami politico che quelle vicende giudiziarie sono in grado di provocare.

Gli attori visti ieri in scena non rassicurano sull’esito. In troppi puntano a trarre un vantaggio di parte dalla rovina comune. Quelli che nel partito di Berlusconi sfruttano la drammaticità della sua ora per acquisire benemerenze e colpire l’ala governativa. Quelli che nel Pd, per lo piu renziani, non vedono l’ora di affondare Letta magari in nome di una riscoperta purezza antiberlusconiana. E quelli che, stando all’opposizione, pensano che il loro compito sia fomentare il tanto peggio tanto meglio.

Non si spiegano altrimenti la teatralità e al contempo l’incongruenza delle parole e dei gesti cui abbiamo assistito. Beppe Grillo, mentre urla che «l’Italia è un Paese in macerie» e che «non c’è più tempo», chiede come rimedio lo scioglimento del Parlamento e nuove elezioni, perché per un’altra rissa elettorale c’è sempre tempo. I suoi senatori, in un gesto forse inconsapevolmente peronista, si trasformano in descamisados togliendosi in aula la giacca e la cravatta e fischiando come allo stadio la squadra avversaria. I cosiddetti falchi del Pdl, nelle cui mani è rimasto il partito dopo che la sua parte migliore è emigrata al governo, confondono la Cassazione con un Tribunale speciale e invocano il ritorno alle urne come una nuova Resistenza.

Certo, la decisione presa ieri in Parlamento di sospendere i lavori per un giorno, piccolo surrogato concesso al Pdl in rivolta per l’imminenza della sentenza Berlusconi, è fuori dal comune (anche se è prassi per i congressi di partito). Ma purtroppo è l’intera situazione in cui ci troviamo ad essere fuori dal comune, come testimonia la visita serale di Enrico Letta al Quirinale. Comunque la si veda, se ne dia la responsabilità all’imputato Berlusconi che se l’è cercata o ai magistrati che lo perseguitano, la vita e l’operatività del Parlamento e del governo sono infatti costantemente in pericolo. E questo proprio mentre l’Italia arranca, è come schiacciata dal macigno della crisi, tenta disperatamente di rialzarsi, viene di nuovo declassata. Il resto del mondo ci guarda attonito, attendendo di capire se questo grande Paese ha deciso di suicidarsi.doc0935

Dal pasticcio in cui si è cacciata la politica c’è una sola via di uscita: assumersi ciascuno una responsabilità collettiva. E c’è solo una bussola: attenersi scrupolosamente alle regole dello Stato di diritto, inventate proprio per tenere separati i poteri. Stiamo camminando sul ciglio del burrone. Per favore, smettetela di spingere.

Per cosa protesta il Pdl? Il motivo della protesta è che la cassazione ha fissato la data del processo in tempi brevi. È ovvio, che le ragioni che spingono il partito di Berlusconi alla rivolta non sono né giudiziarie (la stessa difesa di Berlusconi non contesta l’enorme evasione fiscale portata avanti dal gruppo Mediaset, ma il fatto che Berlusconi, dopo la discesa in campo, non abbia più avuto alcun ruolo nel gruppo), né tanto meno di accanimento nei confronti dell’imputato, come racconta il seguente articolo:

Processo Berlusconi-Mediaset: la Cassazione, la legge e la prassiDaniela Stasio su Il sole 24 ore

La legge è uguale per tutti, e lo è anche la prassi seguita dalla Cassazione per i processi prossimi alla prescrizione. Non poteva fare eccezione, quindi, il processo Mediaset a Silvio Berlusconi (condannato per frode fiscale a 4 anni di carcere e a 5 di interdizione dai pubblici uffici), visto che il 1° agosto scatterà la prescrizione di una delle due frodi consumate dall’ex premier.

Legge e prassi prevedono che, in questi casi di «urgenza», i termini per fissare l’udienza possano essere ridotti fino a un terzo (20 giorni invece di 30) e che, se si è a ridosso della sospensione estiva, il processo venga trattato ugualmente. Pertanto, in base a una legge del ’69 e all’articolo 169 del Codice di procedura penale nonché alle direttive annualmente impartite dal primo presidente della Cassazione, il processo Mediaset è stato fissato il 30 luglio davanti alla Sezione feriale (presidente Antonio Esposito, giudice relatore Amedeo Franco) e la difesa è stata avvisata della riduzione dei termini. Così si arriverà al verdetto prima che scatti la prescrizione, sia pure solo per una delle due frodi. Fermo restando che se la Cassazione dovesse annullare la condanna con rinvio alla Corte d’appello, sarà quest’ultima a verificare anche l’eventuale avvenuta prescrizione (sia pure parziale).

Tutto nella norma, insomma, sebbene il Pdl gridi alla «cospirazione» e all’«aberrazione». L’avvocato Franco Coppi, che affianca Niccolò Ghedini, ammette che la decisione della Corte è «formalmente corretta» ma si dice «esterrefatto» perché «non c’era ragione di fissare termini così brevi» che «incideranno sulla possibilità di difesa», costringendo gli avvocati a «una preparazione affannosa». Ghedini parla di «tempo eccezionalmente breve» e contesta il calcolo fatto dai supremi giudici perché «il primo dei due reati si prescriverebbe, valutate le sospensioni, parecchi giorni dopo la fine dei termini feriali del 15 settembre 2013, mentre l’ultima contestazione si prescriverebbe addirittura a fine settembre 2014».

Ma la ragione dell’accelerazione è solo l’imminente prescrizione. Per questa stessa ragione centinaia di processi vengono trattati dalla Cassazione con maggiore celerità. Basti solo pensare a quelli per concussione: dopo la legge Severino sull’anticorruzione (190/2012), la Corte è stata costretta addirittura a modificare la propria agenda per accorparli e anticiparli perché molti di quei processi, altrimenti, sarebbero arrivati in udienza già prescritti visto che la legge 190 ha ridotto da 15 a 10 anni la prescrizione della vecchia «concussione per induzione» diventata «induzione indebita» (nonostante questo sforzo, per alcuni non c’è stato nulla da fare). E del resto, sono centinaia i «169» – come si chiamano in gergo i casi «urgenti» – che la Cassazione manda in Procura generale con la segnalazione di «prescrizione imminente» e su cui il Pg chieda la riduzione dei termini per il giudizio.

A motivare tanta ostilità nei confronti dei giudici è una sola cosa: la paura che tutto finisca.

Per i parlamentari (Pdl e PD) la paura che cada il governo, si torni al voto e… nel Pdl, se non c’è più Berlusconi, sia finito anche il partito… nel PD, con Renzi già pronto a scattare, si rischi il repulisti e la fine politica per una generazione intera di parlamentari.

Per il Presidente Enrico Letta la paura è nel tempo: più dura il suo governo, più possibilità ha di consolidarsi e diventare “realtà” un modello di PD che ricicla per l’ennesima volta il vecchio establishment (PC, PDS, DS, cioè Dalema & Co.); Letta, di tale riesumazione, diverrebbe di conseguenza il punto focale.

Per Berlusconi… non serve spiegarlo; il suo “non intendo fare la fine di Craxi” è quantomai eloquente.

Per noi l’imminente scomparsa di Berlusconi dalla vita plitica del Paese rappresenta un’altra paura ancora. Chi voteremo? A chi affideremo le nostre speranze? Dopo vent’anni di politica incentrata attorno a lui, da destra, com’era ovvio, ma anche da sinistra, ognuno di noi si trova a vivere l’inquietudine del dopo. E dopo che Berlusconi se ne sarà andato? Per chi si sente di centrodestra finisce un sogno. E come accade sempre dopo i sogni, ci si deve svegliare e fare i conti con la realtà, che dopo un sogno di 20 anni, è molto cambiata rispetto a come la si è lasciata prima di addormentarsi. Per chi si sente di centrosinistra potrebbe sembrare una liberazione, ma in realtà, dopo vent’anni di partiti di centrosionistra che hanno posto il loro fondamento non sulle istanze della parte più debole della società, ma sulla contrapposizione a Berlusconi, la sua caduta rappresenta anche da questa parte un salto nell’ignoto. E dopo Berlusconi cosa ne sarà del PD? O per restare nella metafora del sogno: gli elettori di centrosinistra, visto che la moglie accanto a loro dormiva, hanno pensato di aprofittarne…e farsi un sonnellino pure loro. La moglie per lo meno ha sognato (un miliaridario furbetto che la corteggiava), il marito si sveglierà convinto di aver solo chiuso gli occhi…ma anche per lui 20 anni sono trascorsi.

E poi ci sarebbe la Repubblica. Ecco lei è forse l’unica a dover sperare che Berlusconi scompaia. Ma dato che è l’unica a volerlo, è probabile che alla fine debba arrendersi e a finire sia proprio lei.

Il bene del Paese

30 Aprile 2013 Nessun commento

Riporto l’editoriale di Ezio Mauro apparso oggi sul sito de La Repubblica, l’originale e reperibile a questo indirizzo.

Il Paese prima di tutto, avevamo detto qualche giorno fa. Oggi possiamo aggiungere: in particolare nei momenti di difficoltà. Ma dove sta il bene del Paese? Proviamo a ragionare, se è ancora possibile fare una discussione serena anche con chi non si riconosce nel pensiero dominante di questa primavera italiana 2013. O almeno col tentativo di usare l’emergenza politica per un cambio di stagione generale e definitivo, che trucchi i conti della piccola storia italiana di questi anni. Non voltando pagina, perché questo accade spesso. Ma riscrivendola.

Tre punti mi sembrano non controversi. 1) – L’Italia è in difficoltà, la crisi dell’economia reale sta sopravanzando il rischio finanziario rivelandosi in tutta la sua gravità per le aziende, per i lavoratori, per la coesione sociale. 2) –  Un governo è indispensabile, e chi ha detto il contrario è uno sprovveduto in linea con i populismi vari, che campano spacciando risposte semplici a problemi complessi. La Spagna proprio in questi giorni ha negoziato con Bruxelles due anni in più di tempo per il rientro del deficit, dimostrando che un esecutivo con conti e programmi alla mano può farsi ascoltare in Europa fino a bucare il muro dell’austerity dogmatica. 3) – Dopo aver sfiorato il default finanziario, il sistema ha rischiato il default istituzionale.

E questo perché le tre minoranze uscite dalle urne anche grazie ad una legge sciagurata non sono state capaci di formare una maggioranza di governo, e addirittura non sono riuscite a dare forma all’istituzione suprema, la presidenza della Repubblica. Da qui il corto-circuito che ha portato tre partiti a chiedere a Napolitano di ricandidarsi perché il parlamento era bloccato, accettando nel contempo la richiesta del capo dello Stato di impegnarsi a far nascere un governo, due mesi dopo il voto. Quindi un governo di necessità, una situazione estrema, una soluzione eccezionale fortemente contraddittoria, perché trova unite questa destra e questa sinistra, che si sono contrapposte duramente per vent’anni.

Com’è chiaro, non sono le responsabilità che devono spaventare. Ci sono parecchie cose che non solo si possono, ma si devono fare insieme tra forze politiche molto diverse (Scalfari ha ricordato Togliatti) e riguardano le regole del gioco e le sue varie forme, quindi la legge elettorale, la riduzione del numero dei parlamentari, la correzione del bicameralismo perfetto, il taglio dei costi della politica: tutte misure che potrebbero ridare efficienza alla macchina democratica, ma soprattutto potrebbero avviare un recupero di fiducia nel rapporto in crisi tra partiti, istituzioni e cittadini. Anzi, le politiche di cambiamento e di novità (come la scelta da parte di Enrico Letta del ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge) sono l’unica strada per governare la contraddizione politica di questa maggioranza, provare a superarla nei fatti e guardare avanti, ricordando che la premiership viene dal Partito democratico e deve averne il segno.

dollari_vs_giustiziaIl punto in discussione è il tentativo ormai evidente, sistematico, insistito e molto diffuso di vendere un’alleanza di emergenza come uno stato d’animo del Paese, trasformando un governo di necessità in un’opportunità culturale per rimodellare la vicenda storica di questi anni. L’operazione cambia le carte in tavola, e assume un unico punto di vista – quello della destra, con le sue convenienze – come fondamento oggettivo della nuova fase. È evidente a tutti che Berlusconi, giunto terzo alle elezioni, arriva al tavolo delle grandi intese per scelta, con un’opinione pubblica che si sente premiata, una classe dirigente che appare miracolata. Dall’altra parte, il Pd – sconfitto politicamente nel momento in cui prevaleva numericamente – arriva alla condivisione di governo per obbligo, con un’opinione pubblica contraria e frastornata, un gruppo dirigente disorientato e diviso. La sinistra vuole governare per fare poche riforme necessarie, affrontare la crisi del lavoro, rinegoziare la stretta dell’austerity con l’Europa e andare al voto. La destra vuole rilegittimarsi come forza di governo dopo il fallimento del ministero Berlusconi, vuole istituzionalizzare la carica “rivoluzionaria” che aveva in passato portandola dentro il sistema, vuole sacralizzare la figura del suo leader ripulendola dalle troppe macchie degli ultimi anni attraverso un ruolo da padre della Repubblica: senatore a vita, o presidente della convenzione per le riforme. Dunque il governo può durare finche servirà a questo scopo.

In sostanza è come se la destra dicesse al sistema: l’anomalia berlusconiana (composta dalle leggi ad personam e dal rifiuto di accettare il giudizio dei tribunali, dal conflitto di interessi, dallo strapotere economico e mediatico, da una cultura populista che intende il potere eletto dal popolo sovraordinato rispetto agli altri poteri, dunque insofferente per natura speciale ad ogni controllo) è troppo grande e troppo permanente per essere risolta. Il sistema è stremato per lo scontro senza soluzione con la presenza fissa di questa anomalia. Dunque al sistema conviene costituzionalizzarla, introiettandola: ne uscirà in qualche misura sfigurato ma definitivamente pacificato, perché a quel punto tutto troverà una sua nuova deforme coerenza. Per questo, la grande coalizione è un’occasione irripetibile, guai a non sfruttarla ben al di là del governo.

Per arrivare fin qui, al vero scopo, è necessario lavorare sul “contesto”. Ingigantire l’aura di questo governo, parlando di “pacificazione”, di uscita dalla “guerra civile”. Bisogna cioè creare un senso comune accettato che ricrei le basi del confronto politico e rinneghi la lettura di questo ventennio, sia la lettura di destra che quella di sinistra (quella centrista o liberale non conta, perché è sempre al traino della cultura dominante in quel momento). E il senso comune è quello della grande omologazione nazionale, dove si scopre all’improvviso che destra e sinistra sono uguali, le vicende di questi ultimi anni non contano più per gli uni e per gli altri, non hanno lasciato segni nella storia, nella cultura istituzionale, nella piccola vicenda dei partiti, nel loro rapporto che pure è stato per lunghi tratti vivo, vitale e addirittura vivace con le opinioni pubbliche di base.

Ne discendono norme nuove di comportamento, inviti insistenti. Valga per tutti “il principio di realtà”, quindi non le culture di riferimento, gli interessi legittimi che si rappresentano, addirittura gli ideali diversi. No, conta solo la “realtà”, cioè il dato di oggi che prevale sul futuro e sulla storia italiana di questi anni. La politica si conformi. I giornali cambino addirittura tono, abbassando la voce, come se ci fosse un tono prefissato secondo le stagioni di governo, e i toni non fossero ogni volta la reazione a precise azioni dei protagonisti, dichiarazioni, proclami. Il risultato da ottenere è evidente: una grande amnistia culturale deve scendere sul ventennio, non lo si deve più ricordare per non giudicarlo, tutto è alle spalle, tutto si confonde, gli statisti non sono a targhe alterne ma in servizio permanente effettivo.

E qui, il nuovo senso comune ben coltivato porterà all’esito finale di tutta l’operazione: la fine del giudizio penale ancora in corso per definitiva autoconsunzione, in quanto il nuovo clima dominante di conciliazione governante prevarrà sul clima che pretendeva giustizia, o sosteneva per anni la pretesa di volere addirittura la legge uguale per tutti. Giuliano Ferrara lo ha detto lucidamente: la strada maestra per Berlusconi è spingere per la grande politica, “obliterando in questo modo ogni valore morale delle condanne che lo riguardano”. Vale a dire che il nuovo senso comune spodesterà quello precedente, vivo per anni, maggioritario o di minoranza secondo le fase, e tuttavia vivo. Alla fine si presenterà tutto questo come una vittoria della politica, mentre è un’altra cosa. L’abuso semantico e politico, dunque culturale, del concetto di governo di salute pubblica si estenderà prosaicamente alla salute privata di qualcuno. E quando questo clima sarà instaurato, potranno venire come al solito le norme ad personam, visto che a quel punto non sembreranno più un vulnus, ma un esito naturale e accettato.

Nella lettura a reti unificate che i giornali danno della grande intesa, si vedono tutti i segni di questa costruzione complessa che si richiama alla “realtà”, ma che configura un’iper-realtà politica di comodo, addirittura ideologica. È una lettura dalla quale ci discostiamo. Si possono – si devono – fare le cose che servono al Paese, ma salvando il vero principio di realtà, che consiste nel preservare le diverse “visioni sostantive” del Paese, le identità distinte di destra e sinistra, le letture degli ultimi vent’anni che sono state fatte in forme tutt’affatto difformi nei due campi, le due diverse idee dell’Italia. Qui c’è la base di un’onesta responsabilità condivisa, proprio perché qui c’è la coscienza dei limiti dell’emergenza, il rispetto delle pubbliche opinioni, la consapevolezza del fatto che il Paese ha bisogno di una maggioranza e di una minoranza, a cui si deve tornare appena i nodi principali sono stati sciolti. Qui, nelle differenze occidentali, nel rispetto onesto delle diversità, sta la base del futuro scontro elettorale, della ripartenza del Paese e del confronto democratico. Ecco perché tutto questo ci sta a cuore. Perché non tutto è emergenza, e nelle differenze culturali sta il bene del Paese.

E se il Cavaliere uscisse di scena

24 Gennaio 2011 Nessun commento

Ritorno proponendovi una ulteriore citazione. Si tratta di un articolo di Ilvo Diamanti, sociologo, uscito su Repubblicac.it il 24 gennaio 2011, che offre, a mio parere, una interessante lettura di cosa accadrebbe alla politica nel nostro Paese il giorno che Berlusconi dovesse ritirarsi.

E se domani Berlusconi uscisse di scena, travolto dagli scandali e dalle inchieste giudiziarie, più che dall’opposizione politica. Lasciato solo dagli alleati. Dalla Lega, che ha già annunciato l’intenzione di andare subito al voto, se il federalismo si arenasse in Parlamento. Da Umberto Bossi, sempre più infastidito dallo stile di vita del Premier (a cui consiglia di “darsi una calmata”).
Criticato dagli industriali, che considerano l’azione economica del governo insufficiente contro la crisi. (Lo ha ribadito anche ieri Emma Marcegaglia.) Dalla stessa Chiesa vaticana, fino a ieri indulgente seppure imbarazzata. Danneggiato dall’immagine internazionale, a dir poco logora. Infine, elemento definitivo e determinante, sfiduciato dagli italiani, dai suoi stessi elettori. (Nonostante i sondaggi degli ultimi giorni non suggeriscano grandi spostamenti elettorali. Segno di un’assuefazione etica molto elevata).
Anche in queste condizioni, Berlusconi, probabilmente, resisterebbe fino in fondo. (“Non mi piego, non mi dimetto, reagirò”, ha ripetuto due giorni fa.) D’altronde, ha sempre dato il meglio (o forse il peggio) di sé di fronte alle emergenze. Sull’orlo dell’abisso. Come il barone di Münchausen, che riesce a sollevare se stesso e il proprio cavallo, tirandosi su per il codino.
Eppure “se”  –  e sottolineo “se”  –  all’improvviso Berlusconi uscisse di scena, messo all’angolo da coloro che hanno, da tempo, atteso (e preparato) questo momento. Ma anche da molti “amici” e cortigiani, come avviene sempre al potente, quando cade in disgrazia. Allora: cosa accadrebbe? In primo luogo, si sfalderebbe la maggioranza. Quel patto tra partiti e gruppi raccolti intorno a lui  –  e da lui  –  dal 1994 fino ad oggi. La Lega, An, i gruppi post e neodemocristiani che ancora non si sono allontanati da lui, confluendo nel Terzo Polo.

Per ragioni di Copyrigth non ci è consentito riportare l’articolo integralmente. Continua la lettura su Repubblica.it

Comitato di Liberazione Nazionale

15 Dicembre 2010 3 commenti

Come vedete pubblico quella che è stata la bandiera del Comitato di Liberazione Nazionale. Lo faccio in assonanza con quanto è avvenuto ieri nei due rami del parlamento. Dopo questa ennesima dimostrazione del potere immenso del Presidente del Consiglio, sostengo che l’unica cosa per liberarci del tiranno sia una riedizione del Comitato di Liberazione Nazionale, come quello che resse la resistenza contro il nazzifascismo. Era composto da democristiani, comunisti, demolaburisti, liberali, azionisti e socialisti, tutti assieme.

Essi compresero che il pericolo della tirannia veniva prima delle differenti visioni politiche e che era fondamentale fare fronte comune per liberare l’Italia. Poi ognuno avrebbe fatto la sua strada, ma prima bisognava porre le basi della democrazia.

Oggi la democrazia è sopita e annichilita da una persona che utilizza l’immenso potere derivatogli da un altrettanto enorme conflitto di interessi e da un dominio che negli ultimi quindici anni ha consolidato sulle istituzioni che governano questo Paese. Questa persona non è sola, vi è una profonda connivenza di gruppi e singoli che hanno costruito fortune e potere alla corte di questo uomo.

Il parlamento ieri ha mostrato che non ha la forza di sconfiggere il despota che lo opprime. Se è così no lasciamogli altro tempo, tempo che – ringraziamo per l’ennesima volta il Presidente Napolitano – gli è stato concesso per mettere in essere un simulacro di maggioranza, qual’è quella che ieri abbiamo visto uscire dalla conta della Camera.

Andiamo subito al voto con un chiaro programma: ridare dignità alle istituzioni democratiche. Una nuova legge elettorale che restituisca ai cittadini la scelta dei candidati e capace di rispecchiare il più possibile questa scelta nel parlamento; una legge che metta fine per sempre al conflitto di interessi, non per Berlusconi, ma per chiunque altro possa abusarne; una legge che ponga la legalità come cardine dell’economia e che si riprometta di combattere le mafie con questa strategia. Fatto ciò si torni a votare, si riaprano i giochi tra destra e sinistra e si torni ad una politica di governo.

Oggi ci vuole lo stesso coraggio di 66 anni fa. Certo, i nostri nonni lo fecero nel finire di un conflitto mondiale che aveva indebolito il regime. Allora, come oggi, se gli Italiani avessero votato e se si fosse chiesto loro di decidere tra Partito Nazionale Fascista e CLN, avrebbero votato per il primo. Chi lo può dire!?

I partiti che diedero vita alla Repubblica Italiana scelsero la via della resistenza, divennero partigiani, cioè faziosi, scelsero di stare dalla parte della lotta alla tirannia, che in un contesto di guerra e di occupazione divenne lotta armata.

Oggi non siamo in guerra, e neppure siamo occupati da un nemico straniero, ma non per questo viene meno l’anelito al resistere, al fare fronte comune contro il tiranno.

Intendo resistere, voglio essere partigiano. Chiedo un CLN da Berlusconi e mi adopererò in ogni modo per sostenerlo e farlo prevalere.

Una mattina mi son svegliato,
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
Una mattina mi son svegliato
e ho trovato l’invasor.

O partigiano, portami via,
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
O partigiano, portami via,
ché mi sento di morir.

E se io muoio da partigiano,
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
E se io muoio da partigiano,
tu mi devi seppellir.

E seppellire (Mi porterai) lassù in (sulla) montagna,
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
E seppellire (Mi porterai) lassù in (sulla) montagna
sotto l’ombra di un bel fior.

E (Tutte) le genti che passeranno
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
E (Tutte) le genti che passeranno
Mi diranno «Che bel fior!»

«È questo il fiore del partigiano»,
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
«È questo il fiore del partigiano
morto per la libertà!»

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Ignoranti gerontologici o assoluti imbecilli?

17 Dicembre 2009 3 commenti

Sono stato tentato e ritentato di scrivere qualcosa su ciò che è avvenuto domenica scorsa al Presidente del Consiglio. Avrei voluto dire che chi semina vento raccoglie tempesta, che sia a destra che a sinistra non si fa che scialacquare la nostra democrazia.

Sono indignato da quel che ha detto l’On. Fabrizio Cicchitto; cioè del fatto che ad “armare la mano” (1) del mitomane sarebbero state testate come Repubblica, di cui sono stato lettore e finanziatore per anni, o come Il Fatto, di cui sono attualmente abbonato. Insomma, per il capogruppo alla Camera del Pdl è probabile che io, come centinaia di italiani che acquistano il giornale a cui danno più credito, e quindi ne sono in parte i finanziatori, siamo i mandanti occulti del “vile attentato”.

In questi giorni ho sentito amici di destra e di sinistra accusare la controparte di essere la principale causa di questo clima e contemporaneamente ammettere che anche la propria aveva esagerato. Ne ho dedotto che nel gioco del ‘chi ha iniziato per primo’ non vince nessuno. Per questo preferisco non giocarci (i giochi senza fine non mi appassionano).

Berlusconi o lo si ammira o lo si disprezza. Non c’è via di mezzo, e su questa cosa, credo di poterlo dire a ragione, egli ha costruito la sua figura di leader indiscusso del centrodestra. Non si è mai posto come il mediatore, ma come l’oggetto del contendere. Sia a destra che a sinistra, tutto da 15 anni gira attorno a lui e alla sua figura. E ripeto, su questa immagine, corrispondente o meno alla realtà della sua persona, Berlusconi è l’ombelico della politica italiana. La sua figura divide in due l’Italia, e una delle due parti, anche se con diversi gradi di intensità, lo disprezza.

Io questa non la definisco una “campagna d’odio”, ma la realtà di un paese diviso e mantenuto intenzionalmente tale, perché da entrambe le parti politiche c’era da guadagnarci. Non ne faccio una tragedia, perché Berlusconi era già stato fatto oggetto del lancio di un treppiedi, Bush di un paio di scarpe, e soprattutto perché ognuno di noi ha imparato da anni a riconoscere i volti degli uomini della sua scorta. Il presidente del Consiglio Italiano, come altre cariche dello Stato girano scortate, perché? Ovvio! Ciò non significa che debba accadere qualcosa, ma che va messo in conto. Dato che era già successo, dato che io un anno fa, solo perché impugnavo una reflex, ero entrato ad una conferenza stampa di cui lui era l’ospite senza alcuna perquisizione e senza che qualcuno mi chiedesse chi ero, e trovandomici a un metro, la domanda che tutti ci dovremmo porre è: «perché, quando è ovvio che un Presidente del Consiglio è facilmente vittima di azioni e atti mitomani, non viene adeguatamente protetto?»

E invece, di fronte ad una cosa di una tale gravità – e non mi riferisco al gesto, ma al fatto che è stato possibile – si discute sui mandanti, sui colpevoli di un clima, su chi ha “armato la mano”… e non sul fatto che chiunque può avvicinarsi al Primo Ministro. E questo ha anche a che fare con le escort e con tutto ciò che gira attorno al Berlusconi, e su cui ci si dovrebbe interrogare.

È come se io andassi alla Casa Bianca, suonassi il campanello, venisse ad aprirmi Obama e io gli tirassi uno schiaffo ben assestato, perché non sono d’accordo con il suo Nobel per la pace. Secondo voi chi andrebbe sotto accusa? L’apparato di sicurezza del Presidente, o l’Accademia Reale di Stoccolma?

In Italia sotto accusa sono alcuni gruppi editoriali, alcuni giornalisti, alcuni politici, alcuni comici, insomma chi avrebbe creato il clima. Il rapimento e l’assassinio dell’On. Aldo Moro sono stati certamente fatti più gravi e avvenuti in un clima e in un periodo ben più cupo e tetro del nostro, ma nessuno al tempo si sognò di chiamare in causa né il PCI, né gli italiani che non potevano sopportare il Presidente della Democrazia Cristiana (ed erano tanti), né Carl Marx per aver scritto Il Capitale.

Invece oggi si chiede la chiusura di certi siti, l’oscuramento delle pagine di facebook, di twitter, youtube e qualunque altra cosa ospiti il non consono, il non gradito, il non accettabile. E a paventare queste minacce tramite decreto è proprio il Ministro che di sicurezza si dovrebbe occupare. Siamo in presenza di persone che hanno perso il lume della ragione e fanno i ministri o i parlamentari.

Esagero? No. Perché chiudere internet per quello che la gente ci scrive su è come abbattere il palazzo, il monumento, il ponte, per risolvere il problema degli incivili che fanno le scritte sui muri. È da assoluti imbecilli!

(1) Vedi: Corriere della Sera, Avvenire, La Repubblica, Il Fatto.

Santoro, Vespa e il sistema

4 Ottobre 2009 Nessun commento

Riporto da “il Fatto quotidiano” un articolo che sento di condividere appieno e che vi propongo come utile riflessione.

Sono d’accordo anch’io che l’intervento del governo contro Annozzero, oltre che illegittimo, è un’intimidazione inaudita, allargata dal fatto di avvenire all’interno di un panorama televisivo nazionale occupato per i quattro quinti dal centrodestra. Ma mi rifiuto di considerare Michele Santoro una vittima di regime. È piuttosto un prodotto, insieme a Bruno Vespa e ad altri conduttori, della distorsione oligopolista , e in alcuni periodi quasi monopolista del sistema.

Supponiamo, per un attimo, di vivere in un Paese “normale”, per usare un’espressione cara a D’Alema, dove c’è una Rete di Stato e altri quattro o cinque network indipendenti della stessa potenza. In questa ipotetica Italia un ipotetico Santoro conduce sulla Rete di Stato un programma che, per vari motivi, non piace al suo direttore. Può costui cancellare il programma ed eventualmente licenziare il conduttore che non lo convince? Certo che può è lui il responsabile di fronte all’editore, altrimenti che ci sta a fare? In quest’ipotetica Italia l’ipotetico Santoro verrà ingaggiato da un altro network e, se davvero è così bravo, farà grandi ascolti e il Direttore che lo ha cacciato risponderà al proprio Editore per aver danneggiato l’azienda a vantaggio della concorrenza.

Ma nell’Italia reale le cose non stanno così. Se Santoro venisse licenziato non avrebbe alternative all’altezza (essendo per lui impossibile un passaggio a Mediaset). Questa che apparentemente è la sua debolezza è invece la sua forza. Perché diventa inamovibile, dato che qualsiasi intervento contro di lui o il suo programma si configura oggettivamente come un attentato alla libertà di informazione. Tanto è vero che furoreggia da decenni, sui canali nazionali, come, dall’altro versante, Bruno Vespa, con i suoi modi più melliflui e subdoli. Tra l’altro non possiamo nemmeno sapere se i Vespa e Santoro sono davvero così bravi, perché come non c’è una reale concorrenza a livello di reti, non c’è neanche una reale concorrenza fra conduttori. Non hanno rivali. Anch’essi sfruttano l’oligopolio e fanno da tappo all’ingresso di forze più fresche, nuove, diverse ed eventualmente più capaci e meno ideologicamente schierate.

Massimo Fini

Come si esce da questa situazione aberrante? Concettualmente è chiaro. Si chiama “disarmo bilaterale”, di cui qualche volta si è parlato: una rete alla Rai che dipenda direttamente dal governo, come la Bbc inglese, perché anche il governo, che rappresenta tutti i cittadini, ha il diritto di dare un suo indirizzo latu sensu culturale al Paese, una rete a Mediaset e le restanti quattro messe sul mercato e vendute a editori indipendenti dalle prime due e indipendenti fra loro. Ma a questa soluzione non si arriverà mai (se non, forse, nel Quarto Millennio) perché conviene a tutti. A Berlusconi perché consente al così detto campione del liberismo, di mantenere con le sue tre reti, una posizione totalmente illiberista col pressoché totale dominio dell’intero comparto televisivo privato nazionale. Ai partiti nel loro complesso, di sinistra e di destra, perché così possono continuare ad occupare arbitrariamente e illegalmente la Rai, contro la Costituzione (che in nessun passaggio a ciò li autorizza) perché come Ente di Stato dovrebbe appartenere a tutti i cittadini e non ad alcune organizzazioni private quali i partiti sono. E conviene agli inamovibili Vespa e Santoro. Conviene a tutti, tranne che a noi cittadini. Che continueremo ad assistere in eterno a dibattiti impossibili, fasulli, grotteschi e truffaldini sull'”imparzialità” dell’informazione pubblica, come se ci fosse qualcuno che può valutare oggettivamente un concetto così soggettivo, tanto più in un sistema in cui i vertici Rai, il consiglio di amministrazione, la commissione di vigilanza, i direttori, i vicedirettori, i capistruttura, oltre ai fattorini, sono tutti di nomina partitica, per cui ciò che è “imparziale” per l’uno, diventa, automaticamente “fazioso” per l’altro. Che barba, che noia, che stufida. Che voglia, nella nostra totale impotenza di sudditi, di spaccare tutto.

(Massimo Fini – Il Fatto Quotidiano – Mercoledì 30 settembre 2009 – Anno 1 – n° 7)

Si, se poe fare – Yes we can

24 Gennaio 2009 Nessun commento

Perché dovreste sostenere il nostro partito piuttosto che partiti più blasonati, organizzati, conosciuti e, soprattutto, più ricchi del nostro?

La domanda è più che legittima, e ha a che fare soprattutto con l’ultima questione: anche nel caso in cui si abbiano buone idee ci vogliono i soldi per portarle avanti, per sostenerle, per promuoverle, per diffonderle; e noi i soldi non li abbiamo.

La domanda, però, trascura almeno due aspetti che sono invece da ritenere imprescindibili: il fatto che l’Italia ha istituzioni democratiche e che il problema dei soldi è un problema fino a che qualcuno non dimostra che non è un problema.

Partiamo dalla questione della democrazia. E facile mostrare come gli italiani non abbiano a cuore la democrazia e le istituzioni che la reggono diversamente da come accade ad altri popoli (si veda “Non è l’ottimismo il profumo della vita – eligo, ergo sum“) e quanto questo sia determinante nel nostro avere una classe politica deprimente. Ciò non significa, però, che la Repubblica Italiana non goda di un sistema elettivo democratico, cioè popolare. Prova ne è il fatto che Silvio Berlusconi sia il presidente del Consiglio per la terza legislatura. La mia affermazione non va presa con ironia. Credo realmente che, dopo ciò che mezza Italia ha fatto per delegittimarlo, il fatto che gli italiani lo abbiano rieletto è segno che il voto popolare esiste e conta. Quindi è realistico poter godere della fiducia del popolo italiano; da un punto di vista tecnico e pratico è, cioè, possibile diventare classe dirigente.

Dopo questa mia affermazione molti staranno passando alla questione successiva: i soldi. Berlusconi è riuscito proprio perché ha tanti soldi. È possibile che parte del successo di Silvio Berlusconi in politica sia dovuto alla ingente quantità di pecunia di cui dispone e alle aziende pubblicitarie di cui è proprietario. Ma una cosa non va trascurata anche qui. Se una persona arriva ad un risultato adottando certi metodi, o seguendo un determinato percorso, significa forse che qui metodi o quel percorso sono gli unici possibili? No. Significa solamente che quei metodi e quel percorso sono praticabili e, a patto di averne i mezzi, si possono ripercorrere. Ma non fa il caso nostro.

Come detto ciò non deve essere motivo di scoramento. Spesso le vie più agevoli non sono praticate solamente per il fatto di non essere mai venute in mente a nessuno. Fino a che ci concentriamo su un metodo, su una strategia, su un modello, fatichiamo a vedere che ne esistono altri.

Cosa vedete nell’immagine? Il vecchio in primo piano con la mano appoggiata al petto, o i pastori sotto l’arco e il cane che dorme?

Se fate fatica a vederle ambedue comprenderete ancora meglio il nocciolo della questione. E se anche avete visto entrambe le figure subito, avrete notato come esse siano alternative, cioè non potete vederle contemporaneamente.

È un banale esempio, ma ci dice della nostra tendenza, dopo aver dato un certo significato ad una figura, a non vedere che essa può averne altri; e ci serve a comprendere che così funziona per la totalità delle cose umane, quali sono la politica, il mercato, le relazioni interpersonali, ecc. Non sono mosse da leggi o regole immutabili, ma da credenze e da abitudini; funzionano fino a che crediamo, vogliamo, ci serve che funzionino, dopo di che non contano più nulla.

Se ci stacchiamo dall’idea che solo chi ha soldi, solo chi ha le giuste conoscenze, solo chi è nato dalla famiglia o dal clan giusto può arrivare a certe vette, potremo iniziare a vedere che il mondo può funzionare diversamente, che l’Italia può anelare ad una classe dirigente di cui andare orgogliosa, che un mondo diverso è possibile.

È ovvio che fare questo sforzo non genera di per se stesso l’alternativa; essa va trovata. Ma il trovarla esige questo esercizio. Dobbiamo scuotere la testa, strofinarci gli occhi e sforzarci di pensare che possa esserci qualcos’altro. Forse esso non ci apparirà subito, ma è l’unico modo di vederlo.

Si può fare, ma non perché esso rappresenta una candida illusione, ma perché se decidiamo che il cambiamento siamo noi, in questo stesso momento noi stiamo cambiando le cose. Non dobbiamo mai scordare che i prodotti della realtà umana esistono perché le nostre menti continuamente li alimentano e li reificano. Non esiste nulla di più semplice che cambiarli, basta iniziare a pensarla in modo diverso, iniziare a dirlo e chiedere che altri lo dicano; all’inizio si può anche passare per strani/scemi, ma è così che si cambia il mondo; forse anche con i soldi, ma è molto più difficile, chiedete a Berlusconi.

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