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Le storie del mondo

19 Febbraio 2011 Nessun commento

Quando nacque generazionevaselina.it qualcuno ricorderà che scrivevamo di weltanschoung, di zeitgeist, di rivoluzioni copernicane, di cambiamento di sguardo sulla realtà. E dicevamo che questi cambiamenti erano nell’aria, che ci sarebbero capitati addosso che noi l’avessimo voluto o meno. Che un certo modo di vedere il mondo stava esaurendo il suo ciclo e che un’altra “realtà” stava facendosi strada.

I giovani magrebini si ribellano a tiranni che per decenni hanno oppresso le vite loro e dei loro padri. Si ribellano a regimi che noi occidentali abbiamo appoggiato per ragioni economiche ma soprattutto culturali. Ci comportiamo da secoli come civiltà superiore; abbiamo considerato e continuiamo a considerare  l’Asia, il mondo Islamico, il mondo Africano come tappe intermedie e ancora a venire di un cammino di civiltà di cui la nostra, quella occidentale, rappresenta l’avanguardia. Da quattrocento anni, dall’inizio di quella che, non a caso, chiamiamo l’età moderna, abbiamo guardato al resto del mondo dall’alto in basso. Non ci avvediamo di trovarci al cospetto di civiltà millenarie, in alcuni casi più antiche della nostra. La storia che impariamo a scuole gira attorno al bacino del mediterraneo e ci spinge a credere che la civiltà sia sempre stata tutta lì.

Ma pensiamo davvero che i Cinesi quando rileggono la storia del mondo partano dalla Mesopotamia per poi passare per greci, romani, papi, regine e Napoleoni vari?

Mentre l’Occidente annaspava nel medioevo, il califfato arabo si estendeva dall’Europa all’Asia, comprendendo da un lato la penisola Ispanica e la Sicilia, fino ad arrivare nella sua estremità orientale alla penisola Indiana. Le loro città avevano ospedali, scuole pubbliche (la prima università d’Europa, a Cordova in Spagna, la fecero loro), e se non invasero e conquistarono il resto d’Europa è perché la ritenevano una regione boscosa abitata da popoli barbari e incivili. Si limitavano a venire con le loro navi nel sud dell’Italia o nei Balcani; rapivano decine e centinaia di bambini, li portavano nelle loro città e li facevano crescere in accademie militari, dove diventavano il nerbo del loro imponente esercito. Questo eravamo per loro: una riserva per l’esercito.

Il fatto che in seguito la storia abbia portato alcune nazioni europee a  dominare i mari e poi il mondo non è letta dall’Islam come l’arrivo di una civiltà superiore, ma come tragica conseguenza del decadimento della loro civiltà. Cosa pensereste se un giorno, all’improvviso, quelli che considerate dei barbari incivili, si trovassero a regnare sulle vostre terre? Bé, l’unica spiegazione sarebbe che la vostra civiltà è decaduta e si è indebolita al punto da cadere nelle mani degli Occidentali.

Immagine del 01 febbrario 2011 tratta da www.ilmessaggero.it

Quanto ho scritto potrebbe anche divenire motivo per giustificare allarmismi come la retorica dello scontro di civiltà. Ma in tal caso ne rappresenterebbe una lettura distorta. Ciò che intendo comunicare è proprio il contrario. È il leggere la storia del mondo come se fosse una storia solo nostra che ci fa appartenere ad un mondo di primi e di secondi, di vincitori e di vinti. E sarebbe non capire niente della storia del mondo. Raccontare la storia di quel che ha portato a noi e credere che la storia del mondo coincida sostanzialmente con questo racconto, significa ignorare storie altrettanto grandi e altrettanto potenti. Non ci sono storie che meritano di essere raccontate prima e più di altre. Perché una storia è per definizione un qualcosa che è, solo se viene raccontato. E se il raccontarlo significa restituirlo alla realtà, significa anche affermare chi siamo, da dove veniamo e perché siamo finiti qui; e ciò non può essere negato a nessuno, perché ha a che fare con l’esistere, con l’esserci. Raccontare solo una storia non significa semplicemente dimenticarsi di qualche aneddoto, ma è un atto criminale, perché nega all’altro il tempo dell’esistere, non gli permette di essere.

Allora sarebbe supponente leggere solo da Lampedusa quanto sta avvenendo nei Paesi a sud del Mediterraneo. Sarebbe dai idioti – abbiamo già chiarito il significato di questo termine in “Uguali e diversi” – non vedere come nel resto del mondo stia crescendo la democrazia, e soprattutto sapere che non ce l’abbiamo portata noi con la guerra. Dobbiamo farci il regalo di permettere a questi popoli di raccontarci, mentre accade, la storia della loro democrazia, della loro libertà. Perché è solo nell’ascolto della storia degli altri che possiamo capire in profondità i grandi nodi della nostra. Perché quanto vi è di più personale ed unico in ciascuno di noi è l’elemento che, se partecipato e narrato, parla agli altri nel modo più profondo.

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E se il Cavaliere uscisse di scena

24 Gennaio 2011 Nessun commento

Ritorno proponendovi una ulteriore citazione. Si tratta di un articolo di Ilvo Diamanti, sociologo, uscito su Repubblicac.it il 24 gennaio 2011, che offre, a mio parere, una interessante lettura di cosa accadrebbe alla politica nel nostro Paese il giorno che Berlusconi dovesse ritirarsi.

E se domani Berlusconi uscisse di scena, travolto dagli scandali e dalle inchieste giudiziarie, più che dall’opposizione politica. Lasciato solo dagli alleati. Dalla Lega, che ha già annunciato l’intenzione di andare subito al voto, se il federalismo si arenasse in Parlamento. Da Umberto Bossi, sempre più infastidito dallo stile di vita del Premier (a cui consiglia di “darsi una calmata”).
Criticato dagli industriali, che considerano l’azione economica del governo insufficiente contro la crisi. (Lo ha ribadito anche ieri Emma Marcegaglia.) Dalla stessa Chiesa vaticana, fino a ieri indulgente seppure imbarazzata. Danneggiato dall’immagine internazionale, a dir poco logora. Infine, elemento definitivo e determinante, sfiduciato dagli italiani, dai suoi stessi elettori. (Nonostante i sondaggi degli ultimi giorni non suggeriscano grandi spostamenti elettorali. Segno di un’assuefazione etica molto elevata).
Anche in queste condizioni, Berlusconi, probabilmente, resisterebbe fino in fondo. (“Non mi piego, non mi dimetto, reagirò”, ha ripetuto due giorni fa.) D’altronde, ha sempre dato il meglio (o forse il peggio) di sé di fronte alle emergenze. Sull’orlo dell’abisso. Come il barone di Münchausen, che riesce a sollevare se stesso e il proprio cavallo, tirandosi su per il codino.
Eppure “se”  –  e sottolineo “se”  –  all’improvviso Berlusconi uscisse di scena, messo all’angolo da coloro che hanno, da tempo, atteso (e preparato) questo momento. Ma anche da molti “amici” e cortigiani, come avviene sempre al potente, quando cade in disgrazia. Allora: cosa accadrebbe? In primo luogo, si sfalderebbe la maggioranza. Quel patto tra partiti e gruppi raccolti intorno a lui  –  e da lui  –  dal 1994 fino ad oggi. La Lega, An, i gruppi post e neodemocristiani che ancora non si sono allontanati da lui, confluendo nel Terzo Polo.

Per ragioni di Copyrigth non ci è consentito riportare l’articolo integralmente. Continua la lettura su Repubblica.it

A chi piace marrone?

10 Gennaio 2011 Nessun commento

Avevo intenzione di scrivere qualcosa su quanto sta accadendo fra lavoratori, sindacati, FIAT, confindustria, governo e, non ultimi, fra gli altri cittadini. La spinta maggiore m’era venuta dopo aver letto queste affermazioni: «l’accordo per Mirafiori dà diritto a “posti di lavoro, prospettiva, più salario. L’azienda stava chiudendo, che ci sia stato un manager come Marchionne che ha voluto saper ricostruire le condizioni di base dell’azienda e ha avuto la capacità di allearsi con la Chrysler e darsi un piano che incoraggia i mercati a finanziare un piano industriale per noi importante”» (La Repubblica e Mattino Cinque).

Di chi sarà mai questa affermazione? Della Marcegaglia? Del ministro Sacconi? Di un qualche altro esponente del governo? Una frase così, che mette il lavoro al di sopra di tutto senza più interessarsi della qualità di quest’ultimo; che ignora la fatica di stare 8 ore in catena di montaggio (il nuovo accordo ne prevede anche 10) e il fatto di poterci passare quarant’anni della propria vita; che dimentica che a dare il lavoro è il lavoratore e che al massimo un’impresa dà occupazione; che sembra scordare il fatto banale che la FIAT fa macchine notoriamente di bassa qualità e di scarso appeal, che sono la vera ragione della sua fatica a sopravvivere nel mercato globale. Perché se ancora le parole hanno un senso – e su questo sarà bene tornare – la bassa produttività, cioè l’accusa che Sergio Marchionne fa agli operai, significa che la FIAT vende auto che non riesce a produrre, cioè ha un sacco di richieste e, a causa dell’inefficienza dei propri operai, non può soddisfarle. Questo è l’esatto contrario della realtà. La FIAT non vende automobili per due ragioni: la prima è che le auto sono un prodotto non più sostenibile (cioè se ne vendono abbastanza solo se gli Stati ci mettono l’incentivo); secondo perché se anche fossero sostenibili gli automobilisti preferiscono altre marche (1).

E allora perché l’accusa di improduttività rivolta agli operai? Perché la minaccia di andarsene dall’Italia con la produzione? E soprattutto perché la frase di inizio post l’ha pronunciata un sindacalista della CISL, meglio, il segretario generale della CISL Raffaele Bonanni?

Piacerebbe saperlo! L’unica cosa che mi viene in mente è uno strano incontro a Palazzo Grazioli, sede dell’allora “Forza Italia”, in data 11 novembre 2008, ma non sapendo cosa si son detti mi affido anche questa volta ad una simpatica citazione che vi propongo integralmente:

Immagina di essere un inquilino di un palazzo signorile nel centro di una qualche bella città italiana. La vernice esterna del palazzo si è scrostata e c’è bisogno di una nuova mano di pittura. Il tuo primo istinto, alla riunione di condominio, è di dire che ognuno dipinge i muri esterni del suo appartamento come gli pare. Risulta però che una ordinanza comunale impone che il palazzo venga dipinto interamente dello stesso colore, per motivi di arredo urbano. Non c’è quindi alternativa, occorre accordarsi tra inquilini sul colore da usare.Inizia quindi la discussione e immediatamente si nota una spaccatura tra gli inquilini. Una maggioranza odia il marrone con tutte le forze e preferisce ad esso qualunque altro colore. Gli inquilini con tali preferenze formano la loro organizzazione, la Federazione Inquilini che Odiano il Marrone (FIOM). Agli altri inquilini il marrone invece sta bene, anche se discutono un po’ sulle tonalità. Formano quindi due organizzazioni, la Federazione Inquilini per il Marrone (FIM) e la Unione Inquilini per un Leggero Marrone (UILM). Una volta create le associazioni si scopre che alla FIOM aderiscono 363 inquilini; sono invece 190 gli inquilini che aderiscono alla FIM e circa 100 quelli che aderiscono alla UILM. I numeri a dir la verità sono un po’ malfermi, non sono molto aggiornati e non c’è un organismo terzo che li certifichi. Ma è abbastanza chiaro a tutti che la FIOM è di gran lunga l’organizzazione più numerosa e rappresentativa e che raccoglie più iscritti delle altre due.

Chi avrà a questo punto il diritto di contrattare con l’impresa il colore da dare al palazzo e magari il costo del servizio? In altri palazzi e in altri periodi le varie associazioni degli inquilini avevano comunque cercato di mettersi assieme e trattare in modo unitario. Ma questa volta proprio non ci si riesce, le opinioni riguardo al marrone sono troppo divergenti. Logica vuole quindi che l’associazione degli inquilini maggioritaria conduca le trattative.

Ma non è così. Risulta che l’impresa che deve fornire i servizi di pittura ha una particolare passione per il marrone e decide di mettersi d’accordo con le associazioni minoritarie degli inquilini che condividono la sua passione. Come è possibile, fare una cosa simile? È possibile perché il sindaco ha pure lui una spiccata simpatia per il marrone, ed emette un’ordinanza che afferma essere completamente legittimo e vincolante per tutti l’accordo raggiunto tra l’impresa e le associazioni minoritarie.

Essendo un inquilino che odia il marrone si può ben capire il tuo grado di disperazione. Pazienza se tu fossi l’unico che odia il marrone, ma risulta che la maggioranza degli inquilini la pensa come te. Come è possibile che si ignori bellamente la volontà  della maggioranza? Fai allora un ultimo tentativo. Dici: va bene, è stato fatto questo accordo ignorando l’associazione maggioritaria degli inquilini. Non discutiamo come ci si è arrivati, ma vogliamo almeno sottoporre tale accordo al giudizio degli inquilini? Magari le associazioni minoritarie hanno correttamente interpretato la volontà della maggioranza. O magari no, e sarebbe bene saperlo. Chiedi quindi che l’accordo tra associazioni minoritarie e l’impresa venga sottoposto a referendum. Ma il sindaco, l’impresa e le associazioni minoritarie ti rispondono picche. Niente referendum, l’accordo va bene così e lo devi trangugiare. Perché? Perché loro hanno deciso che il marrone è proprio bello e farà bene al paese. Chi si oppone rema contro e va zittito.
Non hai più parole. Come è possibile, ti chiedi? Sarà anche una decisione di poco conto, il colore del palazzo, ma a quanto pare è stata sottratta completamente alla volontà degli inquilini. L’appartamento lo avevi pagato fior di quattrini, e adesso risulta che la tua opinione sul colore con cui pitturarlo non ha la minima rilevanza. Che razza di paese è questo? Cosa è successo ai diritti di proprietà? Dove sono finite le norme più elementari di uno stato liberale?

A questo punto ti svegli dall’incubo. È stato solo un brutto sogno. Ovviamente non possono dipingere un palazzo con un colore odiato dalla maggioranza degli inquilini. Men che mai un palazzo signorile in centro.
Oppure ti svegli e ti rendi conto che la realtà è molto peggiore. Perché l’accordo separato con le associazioni minoritarie non riguarda una questione di poco conto come il colore del palazzo. Riguarda il tuo lavoro e la tua unica o principale fonte di reddito. Perché tu non sei un inquilino di un palazzo signorile del centro. Sei solo un metalmeccanico.

di Sandro Brusco, 17 ottobre 2009 su noiseFromAmerika

Come ormai è all’ordine degli ultimi post c’è di nuovo da scegliere da che parte stare. Da buoni cittadini anche ‘sta volta c’è da essere partigiani. Io sto con gli operai, parteggio per loro, voglio essere partigiano.

(1) Il mercato FIAT si aggira intorno al 30% in Italia, cioè ogni 10 Italiani, 7 non comprano una FIAT (Alfa Romeo, Lancia, ecc.). In Europa siamo invece intorno all’9%, cioè ogni 10 europei, uno a fatica compera una FIAT.

Odio gli indifferenti

4 Gennaio 2011 Nessun commento

Questa volta mi limito ad una citazione, ma di quelle che pesano. Godetevi la lettura!

«Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?

Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.

Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti».

Antonio Gramsci – 11 febbraio 1917

Alla prossima.

Buone feste a te e ai tuoi cari

24 Dicembre 2010 Nessun commento

In occasione delle festività natalizie, il team di generazionevaselia.it desidera farvi giungere i più sentiti auguri per un felice Natale e un prosperoso 2011.

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Comitato di Liberazione Nazionale

15 Dicembre 2010 3 commenti

Come vedete pubblico quella che è stata la bandiera del Comitato di Liberazione Nazionale. Lo faccio in assonanza con quanto è avvenuto ieri nei due rami del parlamento. Dopo questa ennesima dimostrazione del potere immenso del Presidente del Consiglio, sostengo che l’unica cosa per liberarci del tiranno sia una riedizione del Comitato di Liberazione Nazionale, come quello che resse la resistenza contro il nazzifascismo. Era composto da democristiani, comunisti, demolaburisti, liberali, azionisti e socialisti, tutti assieme.

Essi compresero che il pericolo della tirannia veniva prima delle differenti visioni politiche e che era fondamentale fare fronte comune per liberare l’Italia. Poi ognuno avrebbe fatto la sua strada, ma prima bisognava porre le basi della democrazia.

Oggi la democrazia è sopita e annichilita da una persona che utilizza l’immenso potere derivatogli da un altrettanto enorme conflitto di interessi e da un dominio che negli ultimi quindici anni ha consolidato sulle istituzioni che governano questo Paese. Questa persona non è sola, vi è una profonda connivenza di gruppi e singoli che hanno costruito fortune e potere alla corte di questo uomo.

Il parlamento ieri ha mostrato che non ha la forza di sconfiggere il despota che lo opprime. Se è così no lasciamogli altro tempo, tempo che – ringraziamo per l’ennesima volta il Presidente Napolitano – gli è stato concesso per mettere in essere un simulacro di maggioranza, qual’è quella che ieri abbiamo visto uscire dalla conta della Camera.

Andiamo subito al voto con un chiaro programma: ridare dignità alle istituzioni democratiche. Una nuova legge elettorale che restituisca ai cittadini la scelta dei candidati e capace di rispecchiare il più possibile questa scelta nel parlamento; una legge che metta fine per sempre al conflitto di interessi, non per Berlusconi, ma per chiunque altro possa abusarne; una legge che ponga la legalità come cardine dell’economia e che si riprometta di combattere le mafie con questa strategia. Fatto ciò si torni a votare, si riaprano i giochi tra destra e sinistra e si torni ad una politica di governo.

Oggi ci vuole lo stesso coraggio di 66 anni fa. Certo, i nostri nonni lo fecero nel finire di un conflitto mondiale che aveva indebolito il regime. Allora, come oggi, se gli Italiani avessero votato e se si fosse chiesto loro di decidere tra Partito Nazionale Fascista e CLN, avrebbero votato per il primo. Chi lo può dire!?

I partiti che diedero vita alla Repubblica Italiana scelsero la via della resistenza, divennero partigiani, cioè faziosi, scelsero di stare dalla parte della lotta alla tirannia, che in un contesto di guerra e di occupazione divenne lotta armata.

Oggi non siamo in guerra, e neppure siamo occupati da un nemico straniero, ma non per questo viene meno l’anelito al resistere, al fare fronte comune contro il tiranno.

Intendo resistere, voglio essere partigiano. Chiedo un CLN da Berlusconi e mi adopererò in ogni modo per sostenerlo e farlo prevalere.

Una mattina mi son svegliato,
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
Una mattina mi son svegliato
e ho trovato l’invasor.

O partigiano, portami via,
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
O partigiano, portami via,
ché mi sento di morir.

E se io muoio da partigiano,
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
E se io muoio da partigiano,
tu mi devi seppellir.

E seppellire (Mi porterai) lassù in (sulla) montagna,
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
E seppellire (Mi porterai) lassù in (sulla) montagna
sotto l’ombra di un bel fior.

E (Tutte) le genti che passeranno
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
E (Tutte) le genti che passeranno
Mi diranno «Che bel fior!»

«È questo il fiore del partigiano»,
o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!
«È questo il fiore del partigiano
morto per la libertà!»

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Interloquire

11 Dicembre 2010 Nessun commento

In futuri post affronterò il tema del sofismo e di come veniamo quotidianamente condotti a non cogliere le contraddizioni di cui sono imbevuti i discorsi che la TV e i giornali ci propongono. Per oggi mi accontento di fare chiarezza su un verbo al quale si cerca di cambiare il significato:

INTERLOQUIRE
<in-ter-lo-quì-re> v.intr. (interloquìsco, interloquìsci, ecc.; aus. avere)
1. Intervenire in una conversazione o in un discorso, in modo più o meno opportuno (anche con la prep. in): i. a sproposito; i. in una discussione; con la prep. con: continuava a i. con il relatore

  • Esprimere il proprio parere, mettere bocca (con la prep. su): interloquisce su tutto!
  • non com. Prendere parte come interlocutore a un dialogo.

2. arc. Pronunciare sentenza interlocutoria.
Dal lat. interlõqui, der. di loqui ‘parlare’, col pref. inter- | sec. XVIII

DEVOTO-OLI 2008

Esprimere il proprio parere, mettere bocca su qualcosa. È l’azione di chi si intromette in una conversazione, l’atto di chi si mette in mezzo ad un discorso (inter-loqui). Il verbo non indica che la posizione o la scelta si adeguino al volere di chi si è messo nel discorso, ma semplicemente che costui si mette in mezzo, appunto interloquisce. Sinonimi sono infatti intervenire, interrompere, intromettersi. Diversamente, volendo intendere una azione più volta ad indurre specifiche scelte, sarebbe stato opportuno usare il verbo colludere, sinonimi del quale sono invece accordarsi, complottare, macchinare, intendersi.

Mi dilungo in questo chiarimento dopo aver sentito più volte nelle scorse settimane diversi esponenti della Lega Nord, in primis il Ministro dell’interno Roberto Maroni, ma poi altri, cercare di smentire il racconto di Roberto Saviano sulla presenza della ‘Ndràngheta in Lombardia, fatta a “Vieni via con me”, per l’uso, a loro parere diffamatorio, che lo scrittore ha fatto del termine interloquire.

Anzitutto chiariamo perché all’inizio ho parlato di sofismi. Con sofisma si fa riferimento ad un’argomentazione capziosa e fallace, apparentemente valida ma fondata in realtà su errori logici formali o ambiguità linguistiche. A cosa serve utilizzare i sofismi? A confondere le idee di chi ascolta. A fargli credere d’aver compreso un tema mediante una certa argomentazione, quando invece si è solo prodotta un’argomentazione fallace. Esistono diverse tipologie di sofismi. Il più comune consiste nell’introdurre nel discorso un sillogismo solo apparentemente corretto. Si tratta della fallacia così detta del conseguente, che si verifica supponendo che ciò che è stato ammesso in via condizionale si converta. Ad esempio: «Se X ha la febbre, allora X è caldo, dunque se x è caldo allora x ha la febbre». Nel nostro caso: «Se X dice cose false è falso, dunque se X è falso allora le cose che X dice sono false». La febbre è una risposta fisiologica dell’organismo a stimoli endogeni o esogeni caratterizzata dall’innalzamento della temperatura corporea; l’essere caldi è una caratteristica della febbre, ma la febbre non è una caratteristica dell’essere caldi. Se un termosifone è caldo non diremmo che ha la febbre. Una persona è ritenuta falsa in ragione del raccontare fatti che non sono avvenuti, ma un fatto corrisponde al vero in ragione del suo essere avvenuto, non del suo essere raccontato da X o da Y. Noi sappiamo dell’esistenza di Giulio Cesare per il fatto d’averlo letto su qualche libro, ma l’essere esistito di Giulio Cesare non dipende dalla credibilità del libro.

Di questo meccanismo avevamo fatto cenno in “La moderna incarnazione del terrore staliniano“.  È la tecnica, così detta diffamatoria, che abbiamo visto utilizzata in casi come quello del giudice Mesiano, del – per questo ex – direttore del quotidiano Avvenire Dino Boffo (vedi), del tentativo fatto con Gianfranco Fini (vedi). Il metodo consiste nel rendere poco credibile chi formula l’accusa. Si tratta in pratica di quella strategia che si utilizza nel momento in cui, accusati di un fatto grave, anziché difendere la propria dignità provando di non aver commesso quel fatto, si danneggia la dignità di chi accusa. In questo modo si fa credere che l’accusa sia infondata, perché a pronunciarla sarebbe una persona della quale non ci si dovrebbe fidare. Non si prova d’essere innocenti, ma che l’accusatore è poco credibile. L’errore logico sta nel far confusione tra verità di un fatto e affidabilità di chi lo racconta, che come abbiamo visto in precedenza non si possono correlare. Per il senso comune l’accusa è infatti credibile nella misura in cui a pronunciarla è una persona degna di rispetto. Sono molti i fattori che concorrono a dare o togliere rispetto: l’età, l’eloquenza, i soldi, il vestire, il proprio passato, la propria famiglia, la classe a cui si appartiene, i luoghi che si frequentano, le persone che si frequentano. E sufficiente mettere in discussione uno o più di questi fattori per poter sostenere l’inaffidabilità di una persona. Ciò ci induce in un errore logico molto comune, e proprio per questo subdolo.

Dato che Roberto Saviano è difficilmente attaccabile sul piano della credibilità – vive segregato con la sua scorta, è perseguitato dai boss di Casal di Principe, è una persona relativamente giovane a cui molti hanno dato e danno credito – l’utilizzo del metodo diffamatorio risulta, soprattutto nei confronti di una vasta platea come quella che seguiva il programma Vieni via con me sostanzialmente inefficace, anzi rischiava di diventare controproducente. Screditarlo sul piano personale – come tra l’altro molti hanno tentato – rischiava di farlo apparire ancor più vittima, soprattutto se a farlo era quello Stato stesso che gli fornisce la scorta. Anche in questo caso il sillogismo è semplice: se lo Stato da la scorta a Saviano vuol dire che Saviano è in pericolo, dunque se Saviano è in pericolo, vuol dire che ciò che dice è vero. In pratica la gente tende a dare più credito a Saviano che rischia la propria vita che alla politica che, nel sentire comune, è facile invece alla collusione.

Vista la difficoltà ad attaccare Roberto Saviano sul piano della credibilità, allora lo si è attaccato sul contenuto. Anche in questo caso, però, l’argomentazione di Saviano non è stata contrastata nei fatti, ma nella forma. Il meccanismo è sempre lo stesso: se non è possibile smentire un argomento, basta buttar sul piatto una qualunque ragione di dubbio; che il dubbio non sia in alcuna relazione con l’argomento trattato non importa. L’obiettivo infatti è comunicare che c’è qualcosa che non va, che quindi non ci si deve fidare.

Indubbiamente la tecnica è più sottile di quella della diffamazione. Appellarsi all’uso di un termine, ritenuto inappropriato, ha la funzione di insinuare in chi ascolta il dubbio che qualcosa non vada, che ci sia dell’inesatto. Poco importa, come abbiamo già visto, che ciò non sia vero o che non c’entri affatto. Il tarlo del dubbio è già scoccato, e ciò basta, perché lascia uno spiraglio alle nostre gaie allucinazioni sulla realtà. Ci lascia liberi di sognare che la mafia sia una cosa da terroni, da incivili, che al nord le cose vanno bene, insomma, che non ci sono problemi. A che logica risponde infatti l’affermazione degli esponenti della Lega Nord quando sostengono che sì, la mafia fa affari al nord, ma dire che “interloquisce con la Lega” è una argomentazione inaccettabile? Se interloquisce significa, come abbiamo visto, intervenire in una conversazione? Vuole dirci che non dobbiamo allarmarci, che la mafia, se c’è, è sotto controllo, che si sono arrestati centinaia di latitanti, che possiamo stare sereni, che va tutto bene, che lo stato sta vincendo. Ma è vero?

La mafia è una cancrena per la democrazia, per il vivere civile, cioè per tutto ciò che facciamo ogni giorno. Impoverisce la nostra comunità, distrugge l’economia, toglie la libertà, uccide le persone. È un male ben più grande, tangibile e vicino di quanto lo sia il terrorismo internazionale, che tanto ci spaventa. E non dobbiamo andare in Afganistan a cercarlo, perché sta fra noi, fa affari con noi. Il fatto che non ne abbiamo la chiara percezione, come può avvenire in altre regioni, non significa che non c’è, anzi, ci rende maggiormente vulnerabili. Con l’11 settembre e con gli attentati degli anni successivi in Europa abbiamo scopetto che il terrorismo e il fondamentalismo non sono cose lontane. Abbiamo aperto gli occhi sul fatto che la globalizzazione ha portato in casa nostra i conflitti che consideravamo distanti ed estranei.

E allora perché per il terrorismo i governi fomentano l’allarmismo, mentre per la mafia non lo fanno, anzi, si indignano se qualcuno dice che la mafia c’è e prospera?

Lo ripeto: la mafia è una minaccia ben più grave, certa, concreta e vicina del terrorismo che pur non nego, ed è ben lungi dall’essere sconfitta e sradicata. È una grande azienda che fa affari in molteplici settori, e che sopravvive e prospera grazie a questi affari, non certo per la preparazione manageriale dei suoi boss. Sradicarla significa quindi metterla fuori mercato. Da che mondo è mondo nessuna azienda fallisce se perde l’amministratore delegato. Quindi è vero che arrestiamo tanti boss, ma non ne consegue che la mafia arretra, deve solo trovare un nuovo AD.

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Speranza

23 Novembre 2010 1 commento

Cosa significa essere giovani? Semplice, significa vivere quel periodo della vita che sta tra l’età dell’infanzia e l’età adulta. La nostra tendenza a semplificare le cose ci porterebbe subito a farne una questione di età, e di conseguenza a stabilire quali sono gli anni della fanciullezza, quelli della gioventù, quelli della maturità ed infine quelli della vecchiaia. Dicevo che saremmo estremamente semplicistici a ridurre il tema ad una questione di periodi temporali; anzi, direi che ci stiamo sbagliando, perché stiamo mettendo assieme cose che assieme non vanno. Il primo problema è accettare che la nostra misura di quella cosa che chiamiamo tempo è una pura invenzione. Gli anni, i minuti, i secoli, ecc. non esistono, se non come convenzioni umane.

Se prendiamo a modello la teoria darwiniana la presenza umana sulla terra è un fatto accidentale. Nell’economia della natura la presenza umana non è un punto di arrivo della vita, il culmine del processo evolutivo, ma solamente una delle tante forme che essa ha assunto. Per la natura ciò che sembra contare è il perpetrarsi della vita (organica), non quindi della vita umana, ma semplicemente della vita. Se domani la specie umana dovesse scomparire a causa di un virus o di un batterio, sarebbe il trionfo della vita. La verità sul come l’uomo sia comparso sulla terra, se creato da Dio o disceso da un primate, non è la vera questione che ha opposto Darwin ai suoi detrattori, ma il ruolo dell’uomo nel nostro mondo. Se la Bibbia contenga o meno una descrizione puntuale degli eventi che hanno dato inizio alla vita, è questione collaterale. Il vero problema, inquietante per la nostra idea antropocentrica dell’universo, è che la teoria dell’evoluzione descrive un mondo in cui l’uomo c’è per caso, potrebbe non esserci mai stato, e potrebbe non esserci più. La prima cosa a cadere è l’idea di progresso, e con esso di tutti i concetti correlati: avanzamento, sviluppo, miglioramento, l’idea stessa di civiltà cambia di significato. Detto come lo direbbero i filosofi, siamo accidente.

Dire che l’uomo è accidente significa demolire una serie di preconcetti su cui si basa buona parte del nostro approccio all’esistenza. Ma perché parlo di esistenza? Una visione antropocentrica dell’universo, che tende cioè al leggere ogni fatto e avvenimento in funzione dell’esistenza umana, fornisce ad ogni uomo una finalità eteronoma al proprio esistere. In questa prospettiva l’uomo è fine, è senso, è verso, è valore, è significato per sua stessa natura. Egli esiste come compimento di un cammino che ha portato a lui e come tappa (fondamentale) di un processo che non può che mirare a qualcosa di migliore.

Se accidente, invece, l’uomo si trova costretto a dover dare e trovare un senso, un fine, una spiegazione, a dare un valore e un significato al proprio esistere. Non può contare su una ragione al di fuori di sé nella quale rifugiarsi, ma deve darsi il proprio senso. Addirittura l’essere accidente mette in discussione l’idea stessa che ci debba essere un senso, dato che l’esistenza della specie umana, e tanto più quella del singolo, non è che un caso fra i molti possibili. E così l’uomo moderno, se anche dovesse trovare un proprio senso, questo non potrebbe che valere per per il singolo, dato che sarebbe impensabile l’estenderlo al resto dell’umanità.

Prima l’uomo cercava il suo posto nel cammino dell’umanità. E ora che l’umanità non va più da nessuna parte? Se qualcuno crede di dover avere una meta, un posto da raggiungere, non potrà che andarci solo; senza sperare di trovare sentieri già tracciati e senza poterne tracciare alcuno; senza il racconto di una terra promessa che lo aiuti a riconoscerne i tratti e senza le parole per poterla un giorno raccontare.

Quando Gesù scelse gli ultimi

28 Agosto 2010 Nessun commento

Torno a scrivere dopo alcuni mesi e provo a riallacciarmi al tema lasciato in sospeso, appunto quello degli ultimi e del che cosa significa stare da quella parte. Nel post precedente (vedi) abbiamo visto la sostanziale diversità di vedute tra Enrico Berlinguer e Piero Fassino, tra il vecchio Partito Comunista Italiano e i Democratici di Sinistra, ora PD.

Il tema dell’attenzione agli “ultimi” è centrale nella costituzione di una società che vuole dirsi giusta. L’argomento non è frutto dell’albero marxista, ma è profondamente radicato nella coltura cristiana. Gesù nel vangelo è molto chiaro sugli ultimi, affermando che essi sarebbero stati la sua presenza viva e continuativa. «Signore, quando ti abbiamo visto? … ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt. 25, 31-46). Sembra proprio che Gesù suggerisca di stare con gli ultimi (gli affamati, gli assetati, i nudi, i forestieri, i carcerati, ecc.) se si vuol essere certi di stare con lui. Ne consegue una cosa molto semplice, cioè che il cristiano è, o dovrebbe essere, colui che sta con l’ultimo, che si accompagna ad esso. Non solo, Gesù in più occasioni ha esplicitamente frequentato prostitute, esattori, lebbrosi, ecc. tutte frequentazioni che al suo tempo erano considerate riprovevoli e scandalose.

Siccome il vangelo viene letto in Chiesa tutti i giorni (quasi ognuno di noi ne possiede almeno una copia in casa; gli argomenti di catechismo sono diventati parte del bagaglio culturale di ciascuno di noi), diventa facile rimanere perplessi difronte ai comportamenti e alle affermazioni di certi prelati. Ve ne riporto due, una di un vescovo italiano, l’altra di uno austriaco.

L’italiano è vescovo emerito di Otranto, mons. Vincenzo Franco e dice: «Non darei la comunione a Vendola perché ostenta la sua condizione perversa e malata di omosessuale praticante. A questa gente come lui, un gran furbacchione che specula sulla sua presunta vicinanza alla Chiesa, i vescovi e i sacerdoti sappiano dare un bel calcio nel sedere. Se muore un gay certamente me ne dolgo e prego per lui, ma non posso celebrare una messa funebre per la semplicissima ragione che è morto senza pentimento, senza cambio di vita e da pubblico peccatore, pietra di scandalo. Il Vaticano spesso tace su questioni importanti dando un’idea di indulgenza a buon mercato (vedi anche).

Il secondo è Vescovo ausiliario di Salisburgo, Andreas Laun, che in una pubblicazione recente scrive: «La Love Parade e la partecipazione ad essa, a prescindere dalla sua immagine ripugnante, costituiscono una sorta di ribellione contro la Creazione e contro l’ordine divino, sono un peccato e un invito al peccato […] ci si rifiuta di ammettere che la Love Parade potrebbe anche avere a che fare con il peccato e, di conseguenza, anche con un Dio che giudica e punisce (vedi qui.)». A provare a cogliere quel che scrive, si direbbe che il Vescovo pensa che chi ha partecipato alla manifestazione, poi trasformatasi in tragedia, di Duisburg stesse commettendo peccato e che Dio abbia voluto punirlo spingendolo sotto il tunnel. Lo so, è aberrante!

Non provo neppure ad accennare alla questione dei preti pedofili e dell’omertà che alcuni Vescovi hanno praticato, sarebbe troppo facile, e poi non è attinente all’argomento che trattiamo, cioè gli ultimi e chi se ne fa portavoce. Mi viene da fare una battuta, che da poi il titolo a questo post: a sentire certi ecclesiastici vien proprio da pensare che Gesù abbia scelto gli ultimi, ma nel senso dei “peggiori”.

Dagli uomini di Chiesa purtroppo (1) ci aspettiamo sempre parole di misericordia, e soprattutto atti di perdono. Affido a don Milani la critica a questa spiccata voglia di dire la loro che i vescovi e i cardinali sovente manifestano. È un po’ lungo, ma ne vale la pena!

[…] Criticheremo i nostri vescovi perché vogliamo loro bene. Vogliamo il loro bene, cioè che diventino migliori, più informati, più seri, più umili. Nessun vescovo può vantarsi di non aver nulla da imparare. Ne ha bisogno come tutti noi. Forse più di tutti noi per la responsabilità maggiore che porta e per l’isolamento in cui la carica stessa lo costringe. E non è superbia voler insegnare al vescovo perché cercheremo ognuno di parlargli di quelle cose di cui noi abbiamo esperienza diretta e lui nessuna. L’ultimo parroco di montagna conosce il proprio popolo, il vescovo quel popolo non lo conosce. L’ultimo garzone di pecoraio può dar notizie sulla condizione operaia rabbrividire dieci vescovi non uno. L’ultimo converso della Certosa può aver più rapporto con Dio che non il vescovo indaffaratissimo. E il vescovo, a sua volta, ha un campo dove può trattarci tutti come scolaretti. Ed è il Sacramento che porta e quelli che può dare. In  questo campo non possiamo che presentarci a lui che in ginocchio. In tutti gli altri ci presenteremo in piedi. Talvolta anche seduti su cattedre più alte della sua. Quelle in cui Dio ha posto noi e non lui. L’ultimo di noi ne ha almeno una di queste cattedre e il vescovo davanti a lui come uno scolaretto. E qualche volta, credimi, c’è proprio bisogno di trattarlo così! Non è forse come un bambino un cardinale che ci propone ad esempio edificante un regime come quello spagnolo (2)? Non c’è neanche da arrabbiarsi con lui. Diciamogli piuttosto bonariamente che non esca dal suo campo specifico, che non pretenda di insegnarci cose su cui non ha nessuna competenza. Non l’ha di fatto e non l’ha di diritto. Ne riparli quando avrà studiato meglio la storia, visto più cose, meditato più a fondo, quando Dio stesso gliene avrà dato grazia di stato. Oppure non ne parli mai. Non è da lui che vogliamo sapere quale sia il tenore di vita degli operai spagnoli. Sono notizie che chiederemo ai tecnici. DI lui in questo campo non abbiamo stima. Lo abbiamo anzi sperimentato uomo poco informato e poco serio.

Leggiamo ora un altro episodio. L’ho trovato su una rivista seria, è circostanziato e firmato, non ho dunque motivo di ritenere che sia inventato:

«In uno scopartimento di prima classe del direttissimo Roma-Ancona in partenza da Roma alle 16,37 del 3 ottobre 1958 sedevano un vescovo e due altri religiosi al suo seguito. Il posto accanto al vescovo era occupato da una cartella. Un viaggiatore rimasto in piedi ben per due volte ha chiesto garbatamente se il posto era occupato e i religiosi hanno risposto di sì. Non era vero. Era un’occupazione abusiva fatta col solo scopo di lasciare il vescovo più comodo. Il controllore avrebbe voluto verbalizzare, ma il viaggiatore rimasto in piedi, pro bono pacis, ha pregato di lasciar correre e la cosa è finita così» (“Il Ponte” 1958 pag. 1350).

Ti pare inverosimile? A me no. Siamo di nuovo davanti ad un ragazzo. L’altro pretendeva di insegnare cose che ancora non conosce. Questo ruba 3450 lire e poi rimedia con una bugia e con tutto questo non s’accorge d’aver peccato. Gli pare anzi, con un alone di 50 centesimi di rispettabilità a destra e a manca del suo sedere, d’aver reso omaggio al Carattere Sacro della sua persona. Ha vissuto mezzo secolo di storia ed è già giunto a votare Democrazia Cristiana ma non sa ancora che democrazia è uguaglianza di diritti. È nato cento anni dopo la Rivoluzione Francese e non sì è ancor accorto che quel germe è fiorito, che ha mutato le nostre ex pecorelle, le ha rese non più pecorelle soltanto, ma cittadini: gente che si vuol rendere conto e che vuol essere convinta.

Eppure tutta questa lezione della storia che egli non ha preso è lezione di Dio, perché  è Dio che disegna la storia per nostro ravvedimento e affinamento. E l’hanno inteso perfino tanti laici cattolici. Quelli per esempio che sono stati tredici anni al potere in Italia e non si sono sognati di includere nel regolamento ferroviario privilegi per i vescovi. Non l’hanno fatto perché erano oramai abituati a un sentimento più alto e interiore della dignità vescovile. Qualcosa che è tanto più alta quanto più è vicina, tanto più piccina quanto più pretende un piedistallo che la storia ormai le ha negato. E quello di Bologna che mette a lutto per un mese tutte le chiese della diocesi per un fatto come quello di Prato (3)? E quello stesso di Prato che confronta se stesso con i martiri cinesi? Non sono forse tutti uomini che hanno perso il senso delle proporzioni? E a chi mai può succedere questa disgrazia immensa se non a chi non ha più accanto la mamma che sappia, quando è l’ora, dargli uno scapaccione oppure a chi non ha più intorno dei figlioli coraggiosi che sappiano raccontargli in faccia ciò che dice la gente?

Vedi dunque che non e’ sdegno per i vescovi che occorre, ma per noi stessi, figlioli vili e egoisti che abbiamo amato più la nostra pace che il bene del nostro padre e della nostra Chiesa.

Fermiamoci dunque un poco in esame di coscienza. Potevano quegli infelici saper qualcosa sul mondo che li circonda e su se stessi? C’è qualcuno che li corregge? Abbiamo mai provato a parlar loro francamente così come si parlerebbe al nostro figliolo colto in fallo? No, via, bisogna confessarlo, nessuno di noi si è curato di educare il suo vescovo. E se tanti vescovi vengon su come li vediamo, sicuri di sè, saputelli, superbi, ignoranti, enfants gâtés, come potremo volerne male a loro noi che non abbiamo fatto nulla per tendere loro una mano e riportarli al mondo d’oggi e all’umiltà cristiana e alla giusta gerarchia dei valori? E questo lor essere così non è per la Chiesa un male molto più grande di quanto non lo potrà essere quel turbamento che in qualche animo debole potran fare le critiche? È meglio conservare il piedistallo alto nell’illusione di coprire un po’ alla meglio la vuotezza dei vescovi o è meglio buttar giù il piedistallo e ottenere, per mezzo di un po’ di critica, vescovi capaci di non dire sciocchezze e in più splendenti di quell’umiltà che è virtù cristiana e quindi in nessun modo disdicevole in un vescovo?

La vita di un vescovo! Io ne so poco, ma me la posso immaginare perché conosco qualche sacerdote importante e anche qualche grosso militare e qualche grosso primario di ospedale. Parallelo al crescendo di importanza un crescendo di isolamento. In presenza a lui i giudizi andavano diventando ogni giorno più prudenti e più chiusi. Per esempio, chi pensava che il Papa facesse a mezzo con la Confindustria, lo diceva con scherno impertinente al povero seminarista indifeso. Lo diceva in forma già più attenuata e indiretta al giovane cappellano. Lo diceva solo di lontano al parroco di campagna, padre ancora abbordabile, ma già autorevole personaggio. Non lo diceva per nulla a monsignore parroco di città, amico di un mucchio di persone influenti e molto più potente egli stesso che non il collocatore comunale. Non lo dirà mai al suo vescovo che viene in visita una volta ogni cinque anni e che si può vedere solo dopo molta anticamera in una sala imponente, imponente lui stesso per età, per carica, per grazia. E allora, quando quel vescovo passando per le strade vede sui muri scritte irrispettose per il papa (ma le vede?), non ha elementi per giudicare se siano opera di mestatori estranei senza rispondenza nel cuore degli operai o se siano invece intima convinzione di tanti e che ha avuto esca in errori nostri di cui bisogna correggersi.

Il vescovo che organizza una manifestazione mariana con elicotteri, non ha modo di valutare se questa forma di devozione sdegna o commuove.

Va in visita e non incontra che cattolici o comunisti travestiti da cattolici. Gente comunque che non lo critica, che non si permette di insegnargli nulla. Lo dico senza malanimo. Siamo tutti eguali. Anch’io faccio così nove volte su dieci. Non vien voglia di dire al vescovo ciò che si pensa. È più comodo trattarlo coi soliti dorati guanti di menzogna che danno il modo a lui e a noi di vivere senza seccature. Ed egli intanto cresce e matura e invecchia senza crescere né maturare né invecchiare.

Passa per il mondo senza toccarlo. Non abbastanza alto per essere illuminato dal Cielo. Non abbastanza basso per insozzarsi la veste o per imparare qualcosa. Fa errori puerili, s’intende di tutto, giudica la storia, la politica, l’economia, le vertenze sindacali, il popolo con la beata incoscienza di un infante, con l’innocente pretenziosità del generale di armata o del contadino di montagna. È appunto come il generale di armata e come il contadino di montagna un uomo cui nessuno fa scuola. Un infelice. E tanto più è un infelice per il fatto che nel frattempo perfino i laici cattolici hanno aperto un po’ di occhi. Loro che il muro di incenso non proteggeva dai morsi della storia.

E come è tragico e ingiusto che il Pastore sia rimasto indietro alle pecore! E come potremo non reagire a questo fatto assurdo? Il rispetto? Tacere non è rispetto. È dare una spallucciata dopo aver visto degli infelici che non sanno vivere, gente in mare che non sa nuotare. Disinteressarsi del prossimo è egoismo. Disinteressarsi dell’educazione di fratelli che hanno in mano tanta parte della Chiesa è disinteressarsi della Chiesa! Meglio essere irrispettosi che indifferenti davanti a un fatto così serio. Dunque quel viaggiatore ha fatto bene a provocare quell’incidente e a pubblicarlo. Povero untorello che diffonde la peste dell’anticlericalismo, (quando dice il vero) serve più la nostra Chiesa che la sua. E bisognerebbe ringraziarlo o meglio passargli innanzi ed essere capaci noi dell’esame della nostra coscienza più di lui che ce l’esamina malevolmente. E come vorrei saper dare a questo mio articolo un accento così accorato che nessun malintenzionato potesse dire di me che calco le orme dei nemici della Chiesa! E come vorrei far capire che la stessa notiziola identica, scritta con le identiche parole, quand’è sul Ponte è cattiveria distruttrice, quand’è in bocca nostra è amore appassionato per una Chiesa in cui viviamo, da cui non ci siamo mai staccati neppure in prove durissime, una Chiesa che vogliamo migliore e non distrutta. E quale mai interesse se non di paradiso ci può far stare con lei dopo le figure che ci ha fatto fare? E come dunque si può sospettare i nostri atti?

Ma torniamo all’educazione dei vescovi. Dopo la critica la miglior forma di educazione che possiamo dar loro è di informarli. Le informazioni a un vescovo da dove credi che arrivino? Credi che abbia un apposito servizio di telescriventi che lo colleghi col Vaticano e in Vaticano a sua volta col mondo intero? Non l’ha. Oppure credi che abbia un filo di comunicazione diretta con lo Spirito Santo? Non l’ha neanche il Papa. Lo Spirito lo assiste, ma non lo informa. Te lo immagini lo Spirito in concorrenza con l’ANSA?

I fatti dunque di cronaca e di storia il vescovo li sente raccontare, li legge sui giornali, li ascolta alla radio. Creature sono, creature fallibili, spesso creature maliziose quelle che giorno per giorno hanno l’onore di formare il pensiero del vescovo. Che orrore! E noi bisogna star zitti? Perché noi zitti? Son più bellini quegli altri? Per rispetto anche questo? E che rispetto è mai questo di vedere il nostro padre ingannato ogni giorno, menato per il naso dai padroni della stampa e del mondo e star lì in umile silenzio a lasciar fare?

Quando si sente il cardinal Ruffini lodare il regime spagnolo, verrebbe voglia di dirgli che un dittatore sanguinario o un governante incapace fa più male alla Chiesa quando la protegge che quando la combatte. Ma invece non ci deve essere bisogno di dire queste cose al cardinale. I princìpi li sa, il Vangelo lo conosce. Non è di idee giuste che occorre rifornirlo. Le avrebbe inventate da sé senza che nessuno gliele avesse suggerite se solo avesse visto certi fatti. Oppure se li avesse saputi con tanta precisione e insistenza da esser come se li avesse visti. Di fronte al bisogno ogni uomo diventa inventore come Robinson nell’isola. E il bisogno di una soluzione ideologica soddisfacente lo crea il cuore quando ha visto la sofferenza.

Un cardinale (fino a prova contraria) lo presumi in buona fede, onesto, buono e inorridito del sangue. Se la sua mente non cerca quali siano gli errori di fondo del regime spagnolo è segno che i suoi occhi non erano presenti a qualcuno di quei fatti disumani che visti da vicino bastano a schierare un cuore per sempre. Nell’austero silenzio della biblioteca di un convento domenicano dove non entra né pianto di spose né allegria di bambini, si può ben disquisire sulla liceità della pena di morte, sui diritti del principe e sulla preminenza del bene comune. Ma nel cortile di un carcere spagnolo quando il forte il vincitore uccide il debole il vinto, quando solo a guardarla in viso la vittima si rivela non un comune delinquente, ma creatura alta che ha preposto il bene del suo prossimo al proprio tornaconto. Oppure fuori dei cancelli dove l’urlio di madri, spose, figlioli trasforma anche il comune delinquente in figlio, marito, babbo, in qualche cosa cioè che vorremmo far vivere e non morire, allora le conclusioni di biblioteca si vorrebbe tornassero in altro modo, allora si ritorna sui testi con un altro desiderio in cuore e nel giro di un’ora il meccanismo dei sillogismi ha bell’e sfornato la soluzione giusta.

Questo saprebbe fare anzi correrebbe a fare anche il cardinal Ruffini, ne son sicuro. Ma il cardinale, nel cortile del carcere di Barcellona nel giorno del Congresso Eucaristico non c’era. E non c’era neanche l’inviato speciale del muro di carta che lo circonda. L’inviato era pochi passi più in là in quella stessa Barcellona in quello stesso giorno. Era a fotografare il generale Franco genuflesso su un faldistorio di velluto rosso dinanzi a centomila fedeli sudditi, mentre leggeva la consacrazione della Spagna al Sacro Cuore. Il generale Franco non ha ascoltato neanche il telegramma del Papa per gli undici sindacalisti di Barcellona e li ha uccisi a sfida nel giorno stesso del Congresso.

Sono abbonato al ‘Giornale del Mattino’. Sono abbonato anche a un settimanale cattolico francese. Se non avessi avuto il secondo non mi sarei mai accorto sul primo di quel che fa la polizia francese. Non che la notizia non ci fosse, ma era riportata di rado e non in vista, e in forma dubitativa e senza particolari. Quanto basta per non accorgersene. Oppure accorgersene ma non dargli il suo posto. Accorgersene ma non schierarsi. Sul giornale cattolico francese la stessa notizia è martellata a tutta pagina e spesso si sente anche la testimonianza diretta dei torturati. E non solo le cose dolorose, ma anche quelle volgari: “Enculer il torturato, pisciargli in faccia, fargli assaggiare la merde francaise, passargli l’alta tensione pei coglioni etc” (Temoignage Chretien 26.6.59 pag.3 e pag.5).

Quattro frasi che non leggeremo mai su un giornale cattolico italiano. C’è chi se ne rallegra perché le trova sconce. Io invece sento una gran tristezza nell’appartenere a una Chiesa sui cui giornali le cose non hanno mai un nome.

Il galateo, legge mondana, è stato eletto a legge morale nella Chiesa di Cristo? Chi dice coglioni va all’inferno. Chi invece non lo dice ma ci mette un elettrodo, chi non lo dice ma non persegue i polizziotti che si macchiano di queste atrocità e persegue invece il libro che testimonia queste cose (La Gangrene, Editions de Minuit 1959) viene in visita in Italia e il galateo vuole che lo si accolga con il sorriso. Il presidente Leone ha rimproverato un deputato: “Non mi sembra opportuno dir male di uno Stato proprio quando il suo capo si trova in questa stessa citta’” (seduta del 25.6.59). E a me invece non sembra opportuno stringere la mano a De Gaulle senza avergli detto queste cose in faccia. Avrei paura che il figlio di un torturato vedesse sui giornali la mia fotografia accanto a De Gaulle magari nell’atto di stringergli la mano col sorriso ebete e beato delle fotografie ufficiali. Avrei il terrore che egli si stampasse il mio viso negli occhi per riconoscermi il giorno in cui per caso mi vedesse sul pulpito in una chiesa missionaria d’Africa.

Il galateo dei giornali cattolici italiani in un articolo come questo toglierebbe i nomi di cardinali e vescovi, toglierebbe i dati esatti del treno Roma-Ancona, toglierebbe i particolari sulla tortura parigina, toglierebbe tutto ciò che convince e si imprime. E ci defrauderebbe anche della frase di quel mussulmano torturato: «Avevo sentito dire che quel genere di tortura rende impotenti e il pensiero che avevo gia’ un bambino mi riconfortava».

Che irresistibile moto di solidarietà nasce quando s’è letto queste parole! Che uomo grande è quello! Che grande civiltà e che civiltà spirituale deve avere dietro di sé per poter esprimere questo pensiero durante la tortura invece che i pensieri di odio. E come questa civiltà non avrà diritto a autogovernarsi? E come son piccini quegli altri. Piccoli e volgari oltre che feroci. E che terrore che essi siano non l’eccezione casuale, ma il segno di una società in disfacimento. E come fa paura il pensiero che essi non sono soli dato che il governo “cattolico” si rifiuta di indagare, dato che ha anzi espressamente abolito nella nuova Costituzione il limite di tempo entro il quale la polizia deve consegnare un prigioniero al magistrato. Il cuore si schiera irresistibilmente.

Ecco cosa puo’ fare la stampa con il solo scegliere le cose da raccontare oppure col solo modo di raccontarle. E bada che non si tratta di uno schierarsi sentimentale che debba per forza concretarsi in uno schieramento politico con l’Algeria contro la Francia,.Non e’ trovare subito una soluzione o ignorare alcune ragioni che possono avere anche i francesi in Algeria. È solo un aver presente al cuore la realtà nella sua interezza e concretezza. Questa è l’anticamera necessaria di uno schieramento razionale ed onesto. Ed è questo che i nostri giornali defraudano a noi e al nostro vescovo. E il danno è immenso perché la maggior parte di noi (vescovi compresi) siamo abituati come le donne a ragionare più col cuore che col cervello. E le informazioni vanno sì alla memoria, ma passando per il cuore, e passando lo formano se sono equilibrate, lo deformano se sono unilaterali, in mille modi che la mente non sa più controllare. Passano e ripassano per il canale del cuore del cardinal Ruffini le informazioni sulle torture ungheresi e il cuore batte. Il cuore del cardinale è generoso, batte e si allarga da quella parte. Perfino uno scomunicatissimo capo comunista (Nagy, Beria ecc.) a un teleordine dell’United Press diventa a un tratto acceleratore di battiti di cuore episcopale. E le notizie di Partigi e di Barcellona non passano. Oppure le une passano con particolari che scuotono, le altre passano in volo senza fermarsi.

E se invece di Barcellona e Parigi avessi pescato esempi in campo sindacale italiano, quanto poco mi ci sarebbe voluto a dimostrare che i giornali cattolici ignorano quel mondo e lo relegano nell’ultimo cantuccio o addirittura ne sfalzano maliziosamente i valori? Un volgare matrimonio di principi ha avuto tutta pagina per settimane (e senza critiche), erano le stesse settimane in cui i giornali cattolici ignoravano la gravità delle vertenze che erano accese in quel momento o peggio si univano incoscienti al coro della stampa “indipendente” per mettere in evidenza solo qualche disagio contingente che quegli scioperi provocavano invece di studiarne la sostanza. Sostanza di gran peso se aveva posto in agitazione due milioni di lavoratori italiani apparteneti a tutte le organizzazioni sindacali con la CISL in testa. Il fatto che due milioni di lavoratrori (cattolici compresi e non ultimi) hanno sacrificato generosamente settimane di salari e rischiato e subito rappresaglie per avere esercitato un loro preciso diritto costituzionale non è fatto talmente serio da meritare la prima pagina nel giornale cattolico e quindi nel cuore del vescovo? Ma non l’ha avuta e se il vescovo non va a cercarla apposta relegata nel cantuccio sindacale non trova la documentata risposta di Storti alle banali accuse della grande stampa contro la CISL.

Gli succede quello che è successo a Barcellona e Parigi.

Per le notizie di lontano spesso siamo stati ingannati anche noi come lui. Per le notizie di vicino (per es. queste ultime) spesso, troppo spesso, s’è visto ciò che lui non poteva vedere e siamo stati zitti. E ora è colpa nostra se il cuore del nostro vescovo è guidato coi fili dai giornalisti. Dai giornalisti il cui cuore è guidato a sua volta da chi? Lo sappiamo purtroppo e vien fatto di rabbrividire. È una catena di responsabilita’ “irresponsabili”, che aggroviglia tutto, e disonora in conclusione noi, la nostra gerarchia, la nostra Chiesa. E poi c’è la figura patetica di quell’uomo prigioniero dell’informazione reticente e dell’ossequio vile. E fa pietà non solo per i cristiani e per i lontani che egli ha ingiustamente disorientato, ma anche per lui stesso.

Un prigioniero bisogna aiutarlo e liberarlo, e tanto più quando è prigioniero il nostro padre. Se non gli sbraneremo il muro di carta e non gli dissolveremo il muro di incenso Dio non ne chiederà conto a lui ma a noi. Ci toccherà rispondergli di sequestro di persona. Dopo tutto quel che abbiamo patito in questo mondo ci ritroveremo nell’altro becchi e bastonati.

(Lettera “A Nicola Pistelli direttore di ‘Politica’ – Firenza. Scritta a Barbiana l’8 agosto 1959)

Forse dovremmo, come suggerisce don Milani, prenderci a cuore la figura di qualche vescovo (credo anche di qualche politico o in genere di qualche persona di potere). Dovremmo dargli qualche simbolico scapaccione, di quelli che fanno tornare il senso delle cose, di quelli che restituiscono equilibrio. Dovremmo esser li a ricordar loro quando cagano fuori dal vaso. Invece troppo spesso ci facciamo intimorire dal ruolo, dalle possibili ripercossioni e lasciamo che chi dovrebbe vedere non veda. Fino a che punto allora possiamo indignarci dei nostri vescovi, dei nostri politici, dei nostri “capi”? Fino a che punto possiamo far finta di non c’entrare? Anche questo credo abbia a che fare con l’essere generazionevaselina, con l’omissione, con il tacere. Credo anche che tutto ciò c’entri molto con la nostra personale dignità.

Molti sanno dove lavoro. Spesso al lavoro mi chiedo dove sta la mia dignità!

Per chi volesse farsi una cultura su certe uscite “da bambini” si sfogli questo sito www.pontifex.roma.it.

(1) Dico purtroppo, perché, trovo che si sia troppo indulgenti nei loro confronti. Chi sceglie di farsi prete, monaco, frate, suora, consacrato, certamente si impegna a condurre una vita che si richiama ad ideali ammirevoli, ma il fatto di averla scelta una volta non significa che la si sappia scegliere di nuovo tutti i giorni.

(2) Il riferimento è al regime Franchista della Spagna di quegli anni, e alle lodi che ne cantava il cardinale Ruffini in una intervista rilasciata alla “Stampa” di Torino il 22 maggio 1959. Il cardinale, che era appena rientrato dal Congresso Eucaristico di Barcellona. aveva detto fra l’altro: «Voi giornalisti parlate pochissimo della Spagna, direi che vogliate ignorarla di proposito. Eppure averla amica potrebbe esserci di validissimo aiuto contro il comunismo… Durante il viaggio in Spagna ho chiesto di essere presentato al generale Franco per ringraziarlo di quanto ha fatto…»

(3) Il vescovo di Prato mons. Fiordelli fu condannato dal Tribunale di Firenze  a 40000 lire di multa per diffamazione nei confronti di due coniugi pratesi da lui definiti “pubblici concubini” perché si erano sposati con il solo rito civile. Per protesta contro la sentenza l’arcivescovo di Bologna card. Lercaro ordinò un mese di lutto nella sua diocesi.

Dalla parte di chi?

9 Gennaio 2010 1 commento

In questi mesi mi sono più volte interrogato – ed in alcuni post la cosa è probabilmente emersa – su cosa spinga gli italiani a preferire la destra alla sinistra, su cosa vogliano dire oggi questi due termini, su cosa significhi essere di destra o di sinistra in Italia. La parola partito deriva il suo significato dalla radice “parte”. Esso indica cioè la presunzione di rappresentare una parte, di stare da una parte piottosto che da un’altra. Da che parte sta oggi la sinistra? E la destra? Da che parte il PD? E il PDL o la Lega e l’UDC? Difficile dirlo. Credo che a molti italiani farebbe piacere avere dei partiti che stanno “dalla parte di-” come vorrebbe la “P” che spesso caratterizza le loro sigle. Invece si tratta di organizzazioni di potere volte a prendere voti ovunque e da chiunque, senza prender le parti di nessuno. A vedere da che parte sta il PD e in genere la sinistra italiana può aiutarci un testo che vi propongo di seguito. Per la destra non lo so, non sono neppure sicuro che esista la destra in Italia dopo vent’anni di berlusconismo.

«Così provo ad immaginare che cosa, nella lunghissima e tormentata disputa sulla linea di confine fra socialismo e comunismo, tenesse separate le due identità. Ancora fino agli anni Ottanta, c’erano infatti tre regole auree che spiegavano queste differenze.

La prima. Tutti i  comunisti, da Ingrao a Napolitano, hanno condiviso un’idea della storia: la rivoluzione d’Ottobre, con tutti i suoi limiti, ben chiari dagli anni Trenta ad oggi, doveva essere considerata in ogni caso l’evento che rompe il dominio dei vecchi poteri sul mondo, un punto di ripartenza dell’idea di liberazione nella storia del secolo, la condizione necessaria per rompere il dominio del colonialismo nel terzo mondo.

La seconda. Tutti i comunisti, da Ingrao a Napolitano, da quelli di sinistra a quelli di destra, dai proletari agli ultraborghesi, avevano fatto una scelta di classe: la ragione sociale che il partito difendeva non era quella delle aristocrazie dominanti.

La terza. Tutti i comunisti, da Ingrao a Napolitano, dai plebeisti ai più aristocratici, avevano scelto la “causa degli ultimi”. Non il tradizionale (e spesso nobile) pietismo che i cattolici avevano costruito nei secoli per gli ultimi, e nemmeno il compassionevole sentimento di assistenza che la cultura liberale aveva loro riservato a partire dall’Ottocento. Non era l’idea che gli ultimi avrebbero potuto diventare i primi, magari in uno scenario ultraterreno. Era l’idea che gli ultimi avrebbero dovuto essere i primi. Che gli ultimi erano addirittura meglio dei primi, che il mondo nuovo avrebbe ribaltato la piramide sociale, e che avrebbe funzionato meglio. Brecht scriveva:

“Anche l’odio contro la bassezza stravolge il viso.
Anche l’ira per l’ingiustizia fa la voce roca.
Ma noi, che avremmo voluto approntare il terreno alla gentilezza,
noi non si poté essere gentili.”
.

Diceva Berlinguer: “Noi siamo convinti che questo mondo, anche questo terribile e intricato mondo di oggi, possa essere letto, interpretato, messo al servizio dell’uomo e del suo benessere. La lotta per questo obiettivo, è un obiettivo che può riempire degnamente una vita”. Da quanto tempo i leader della sinistra non riescono ad adombrare l’afflato di questa speranza, nei loro farraginosi e politicistici formulari? La scrittrice Clara Sereni,  comunista e figlia di un prestigioso dirigente del PCI, ha addirittura coniato una bella parola, “ultimismo”, per descrivere in modo esatto questa passione radicale e ideologica.

Diventato segretario dei DS qualche anno fa, invece, Piero Fassino si fece scappare una frase a suo avviso spiritpsa, e a mio parere rivelatrice: “Guardate che il PCI non stava mica con gli sfigati!” Ecco, in quella parola, che nessun comunista avrebbe mai potuto pronunciare – gli sfigati – c’è tutto il senso di un terremoto culturale e di una vistosa perdita di lucidità. Declassare gli ultimi, per farli ritornare dei poveretti, cancellarli dalla prospettiva delle proprie battaglie, non ha nobilitato le sinistre postcomuniste, ma le ha come svuotate di senso. Le ha riportate indietro nel tempo, le ha poste su un piano più arretrato di quello della narrativa dickenseiana o deamicisiana. Le ha disancorate dalla loro ragione sociale, esposte alla concorrenza micidiale dei populismi di destra; le ha appiattite sullo stereotipo venefico della cultura radical-chic, quello che rende i democratici di oggi odiosi e invotabili, agli occhi di grandi strati popolari. Li ha esposti al virus da cui quella geniale invenzione che fu la lotta di classe sembrava averli vaccinati. Eppure nel mondo di oggi le barriere di classe sono tornate a sollevarsi, altissime, all’interno e al di fuori degli antichi recinti. Gli ultimi da riscattare, invece che ridursi, si sono moltiplicati: neopoveri, extracomunitari, lavoratori esclusi dalle posizioni di sicurezza sociale conquistate in generazioni di battaglie. Sarebbe facile che la sinistra quando parla di sfigati diventi sfigata. Di sicuro, senza gli ultimi, malgrado l’euforia presuntuosa dei suoi leader, non va da nessuna parte».

Qualcuno era comunista, Luca Telese, Sperling & Kupfer, 2009.