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La moderna incarnazione del terrore staliniano

Cos’era il terrore staliniano?

Quando Boris Ljudnikov tornò, vide Irina seduta a un capo del tavolo che stava nel centro di quell’unica stanza che era la loro casa. Erano le sei del mattino e Boris tornava dal turno di notte. Irina stava immobile fissando la vecchia stufa che, bruciando la poca legna che Boris aveva portato a casa dal lavoro – era operaio in una grande falegnameria della periferia di Mosca – contrastava il terribile freddo dell’inverno russo. Boris si chiuse la porta alle spalle e le si fece presso: «che c’è, Irina?» disse. Irina continuò a fissare la vecchia stufa. Boris prese l’altra sedia e le si sedette di fonte. Egli stava all’altro capo del piccolo tavolo, fra Irina e la vecchia stufa. Irina continuò nella sua danza immobile come se nessuno fosse entrato, come se tra lei e la vecchia stufa non ci fosse nulla, quando una lacrima attraversò il suo volto. E poi una seconda. Boris si alzò, e con l’espressione di chi per la prima volta sta innanzi all’ignoto, si gettò ai piedi di Irina, prese le mani di lei fra le sue e di nuovo la interrogò: «parlami, Irina! Cosa è successo?» Ma Irina continuava a tacere; solo due lacrime erano riuscite ad oltrepassare la coltre di quella maschera inespressiva che era il suo volto. Boris la guardò poi disse: «sono venuti per i Chkalov?!» A quelle parole Irina chiuse entrambi gli occhi e altre due lacrime le attraversarono il viso.

I Chkalov erano la famiglia che abitava l’appartamento accanto a quello di Boris ed Irina. Si erano trasferiti a Mosca da pochi mesi. Vasilij Chkalov era stato un soldato della gloriosa 62^ Amata che aveva difeso Stalingrado tra l’estate del ’42 e il febbraio del ’43; ora lavorava in un impianto di stoccaggio, vicino alla falegnameria di Boris. La sera che i Chkalov erano giunti a Mosca, Boris e Irina li avevano invitati nella loro casa. Vasilij seduto al piccolo tavolo dei Ljudnikov si mise a raccontare dell’impresa del Don. Boris frugò sotto il letto ed estrasse una bottiglia di vodka, poi prese quattro bicchieri e ne versò per tutti. Vasilij prese il suo bicchiere ne inghiottì il contenuto in un solo sorso, poi guardando Boris e sorridendo gli disse: «buona questa vodka!» Boris gliene versò un secondo bicchiere. Vasilij raccontò di come i soldati della Wehrmacht erano riusciti nei primi mesi della battaglia a prendere quasi tutta la città, ma di come gli eroici reparti dell’Armata Rossa avevano resistito fermandoli alla Fabbrica dei Trattori pur essendo inferiori in numero e in armamenti. Vasilij bevette il secondo, poi un terzo e poi un quarto bicchiere. D’un tratto si incupì; i suoi occhi si fecero di ghiaccio; raccontò di soldati tedeschi che, negli ultimi giorni della battaglia, chiusi nella sacca di Stalingrado, aveva visto mangiare, strappandoli dai corpi dei propri compagni morti per il gelo, brandelli di carne umana. Il silenzio era calato nella stanza di fronte al macabro richiamo di quelle parole. Poi, d’un tratto, colto da un rigurgito di euforia, Vasilij prese il bicchiere per la quinta volta pieno, si alzo ritto in piedi, e rivolto all’immagine che stava appesa alla parete esclamò: «Viva il compagno Stalin…» Poi accasciandosi sulla sedia, il capo chino, ma ancora il braccio del bicchiere alzato, continuò con tono sommesso: «…la nostra infallibile guida».

Sua moglie lo prese e quasi alzandolo di peso lo condusse fuori dalla casa dei Ljudnikov chiedendo infinite volte scusa delle parole del marito e continuando a ripetere che non dovevano far caso a quanto aveva detto, che era solo ubriaco. Quando i Chkalov se ne furono andati Boris prese il bicchiere che Vasilij aveva lasciato, ancora pieno, sul loro tavolo e fece per versarne il prezioso contenuto nella bottiglia ormai dimezzata, ma quando accostò il bicchiere al collo della bottiglia fu attraversato come da un brivido; si voltò verso l’immagine di Stalin come se quegli fosse lì nella stanza e lo stesse guardando. Teneva il bicchiere nella destra, mentre la bottiglia stava sulla sinistra. Alzò il bicchiere, la mano tremante, ed esclamò: «Viva il compagno Stalin, la nostra infallibile guida» e bevve.

Erano passati solo due mesi dall’arrivo dei Chkalov. Una notte bussarono alla porta del palazzo tre agenti dell’NKVD chiedendo di Vasilij Chkalov. Le sottili mura che separavano i locali permettevano di udire da ogni appartamento i passi sicuri degli agenti che si fermarono di fronte alla porta dei Chkalov. Irina era seduta a un capo del tavolo della sua stanza. Udì le urla di Vasilij e della moglie, il rumore del rovistare degli agenti tra le poche cose dei coniugi, ma le urla durarono ben poco, sostituite da tentativi di giustificazione sempre più rassegnati. Dopo neppure mezzora i Chkalov furono condotti via dagli agenti dell’NKVD e scortati alla Lubjanka.

Boris stava in ginocchio, ai piedi di Irina. Stringeva ancora le mani di lei tra le sue. Poi posò il capo sul ventre di lei. Irina allora accostò la sua mano alla testa di Boris e fece per accarezzargli i capelli, ma si bloccò e disse: «non voglio più questo bambino. Non voglio farlo nascere in questo mondo». Boris, ancora posato al ventre di lei, scoppiò in lacrime.

(Racconto di Davide Girotto liberamente ispirato al film “Il proiezionista” di Andrei Konchalovsky)

Questo era il terrore staliniano. La follia di una normale convivenza con l’idea che in qualunque momento, in qualunque istante, per chi sa quale motivo poteva succedere che i tre agenti arrivassero per te. Bastava una foto degli anni della scuola in cui posavi accanto ad un bimbo figlio di chi sa chi, la corrispondenza con qualche lontano amico, la testimonianza di qualche vicino che ti aveva udito parlare del compagno Stalin, per essere incriminati. Venivi portato nelle prigioni della Lubjanka, interrogato, torturato, e di nuovo interrogato; infine inviato ai campi di riabilitazione siberiani. Erano solo congetture? Illazioni? Disguidi? Non importa. Ciò che conta è che chi ti aveva visto portar via potesse nutrire il sospetto della tua colpevolezza. Importa che chi ti aveva visto portar via nutrisse il timore di poter anch’egli fare la tua fine. Ciò che conta è che chi ti aveva visto portar via preferisse non avere un proprio pensiero e rinunciare alla critica; preferisse non vedere l’ingiustizia e assoggettarsi alle norme del sistema; preferisse ringraziare ad ogni piè sospinto la grande guida e gridare: «gloria eterna all’uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e per il progresso dell’umanità. Il Capo dei lavoratori di tutto il mondo» (L’Unità, 6 marzo 1953).

Oggi non si presenta la polizia politica a casa. Per eliminare chi è scomodo non serve arrivare a deportarlo o addirittura ad ucciderlo. È sufficiente sbeffeggiarlo, ridicolizzarlo davanti all’opinione pubblica. Gli strumenti sono sempre gli stessi: una foto, il testo di una corrispondenza, le testimonianze di qualche vicino, un pedinamento. Ciò che conta è insinuare il dubbio, instillare il sospetto che si tratti di un poco di buono. Ciò che conta è far sapere che chiunque, anche l’ultimo dei giudici civili di Milano, l’ultimo degli impiegati di un ufficio pubblico, l’ultimo degli operai di una piccola fabbrica, deve guardarsi dal criticare la guida.

Il direttore di un giornale viene costretto alle dimissioni. I giudici della consulta vengono sospettati di golpe. Una onorevole deputata viene ridicolizzata per la sua opinabile bellezza. Fino a che gli attacchi colpiscono i “potenti” non ci si rende conto di quel che sta succedendo. Sembra quasi accettabile che chi ha le spalle grosse possa beccarsi qualche colpo basso. Ma la grande guida è infallibile, non ammette che si neghi tale verità. E se farlo non è consentito ai “potenti”, tanto meno lo è per l’uomo della strada, che al contrario è chiamato a venerare l’infallibilità del capo.

Quindi il passo ulteriore: la messa in ridicolo dell’uomo della strada. L’attacco vile ad un giudice che si è trovato a dover stabilire, dopo che era già stato provato che il furto era avvenuto, quanto il ladro doveva risarcire alla vittima.

Chi è costui? Come si permette? Chi è questo giudice che osa, pur essendo un “signor nessuno”, sentenziare qualcosa sulla nostra amata guida? Conosciamo bene il personaggio, non è nuovo a queste cose: si aggira per le strade della sua città; mentre attende il turno davanti al negozio del suo barbiere, è impaziente, va avanti e indietro, fuma la sua sigaretta, e poi riprende, avanti e indietro. Probabilmente mette in atto questi atteggiamenti sovversivi perché non sa ancora che ha ricevuto una promozione, che avrà un aumento di stipendio. E infatti continua, avanti e indietro, si rilassa solo quando gli fanno barba e capelli. E poi via, a passeggiare nuovamente. Ha l’ardire di fermarsi solo due volte, al semaforo e al passaggio pedonale per accendere l’ennesima sigaretta della mattina, come fosse uno spot all’incontrario. E poi, prima di dileguarsi furtivamente, uscendo dalla nostra vista, eccolo all’ultimo stravagante atto eversivo: seduto su una panchina, con la sua camicia bianca, i pantaloni blu, il mocassino bianco e calzino turchese, uno di quei calzini che in tribunale non è proprio il caso di sfoggiare.

Chi è costui? Un signor nessuno!

Chi di noi sarà il prossimo? Io? Tu che leggi? Il tuo vicino di casa?

Tu dici: «a me non capiterà mai di mettermi contro la nostra infallibile guida!»

Sei sicuro? Forse l’hai già fatto. Non ti è mai scappata una battuta? Non hai mai mosso una critica? Non c’è qualcuno a cui farebbe piacere vederti sbeffeggiato? Non ti aggiri mai per le vie della tua città? Non ti è mai capitato di aspettare impaziente dalla parrucchiera o dal barbiere? Di fermarti al semaforo o al passaggio pedonale?

Attento! La nostra infallibile guida non può sbagliare, neppure sul tuo conto…

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