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Speranza

Cosa significa essere giovani? Semplice, significa vivere quel periodo della vita che sta tra l’età dell’infanzia e l’età adulta. La nostra tendenza a semplificare le cose ci porterebbe subito a farne una questione di età, e di conseguenza a stabilire quali sono gli anni della fanciullezza, quelli della gioventù, quelli della maturità ed infine quelli della vecchiaia. Dicevo che saremmo estremamente semplicistici a ridurre il tema ad una questione di periodi temporali; anzi, direi che ci stiamo sbagliando, perché stiamo mettendo assieme cose che assieme non vanno. Il primo problema è accettare che la nostra misura di quella cosa che chiamiamo tempo è una pura invenzione. Gli anni, i minuti, i secoli, ecc. non esistono, se non come convenzioni umane.

Se prendiamo a modello la teoria darwiniana la presenza umana sulla terra è un fatto accidentale. Nell’economia della natura la presenza umana non è un punto di arrivo della vita, il culmine del processo evolutivo, ma solamente una delle tante forme che essa ha assunto. Per la natura ciò che sembra contare è il perpetrarsi della vita (organica), non quindi della vita umana, ma semplicemente della vita. Se domani la specie umana dovesse scomparire a causa di un virus o di un batterio, sarebbe il trionfo della vita. La verità sul come l’uomo sia comparso sulla terra, se creato da Dio o disceso da un primate, non è la vera questione che ha opposto Darwin ai suoi detrattori, ma il ruolo dell’uomo nel nostro mondo. Se la Bibbia contenga o meno una descrizione puntuale degli eventi che hanno dato inizio alla vita, è questione collaterale. Il vero problema, inquietante per la nostra idea antropocentrica dell’universo, è che la teoria dell’evoluzione descrive un mondo in cui l’uomo c’è per caso, potrebbe non esserci mai stato, e potrebbe non esserci più. La prima cosa a cadere è l’idea di progresso, e con esso di tutti i concetti correlati: avanzamento, sviluppo, miglioramento, l’idea stessa di civiltà cambia di significato. Detto come lo direbbero i filosofi, siamo accidente.

Dire che l’uomo è accidente significa demolire una serie di preconcetti su cui si basa buona parte del nostro approccio all’esistenza. Ma perché parlo di esistenza? Una visione antropocentrica dell’universo, che tende cioè al leggere ogni fatto e avvenimento in funzione dell’esistenza umana, fornisce ad ogni uomo una finalità eteronoma al proprio esistere. In questa prospettiva l’uomo è fine, è senso, è verso, è valore, è significato per sua stessa natura. Egli esiste come compimento di un cammino che ha portato a lui e come tappa (fondamentale) di un processo che non può che mirare a qualcosa di migliore.

Se accidente, invece, l’uomo si trova costretto a dover dare e trovare un senso, un fine, una spiegazione, a dare un valore e un significato al proprio esistere. Non può contare su una ragione al di fuori di sé nella quale rifugiarsi, ma deve darsi il proprio senso. Addirittura l’essere accidente mette in discussione l’idea stessa che ci debba essere un senso, dato che l’esistenza della specie umana, e tanto più quella del singolo, non è che un caso fra i molti possibili. E così l’uomo moderno, se anche dovesse trovare un proprio senso, questo non potrebbe che valere per per il singolo, dato che sarebbe impensabile l’estenderlo al resto dell’umanità.

Prima l’uomo cercava il suo posto nel cammino dell’umanità. E ora che l’umanità non va più da nessuna parte? Se qualcuno crede di dover avere una meta, un posto da raggiungere, non potrà che andarci solo; senza sperare di trovare sentieri già tracciati e senza poterne tracciare alcuno; senza il racconto di una terra promessa che lo aiuti a riconoscerne i tratti e senza le parole per poterla un giorno raccontare.

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  1. Laura
    26 Novembre 2010 a 12:08 | #1

    Complimenti per le ultime parole… Tra la filosofia e la poesia.
    Mi fa quasi ricordare il Viandante sul mare di nebbia di Friedrich.

  1. 11 Marzo 2013 a 14:39 | #1