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Archivio per la categoria ‘partito’

Il bivio

12 Dicembre 2009 Nessun commento

Da un po’ provavo a mettere su “carta” una ragionata spiegazione della mia disaffezione, non alla politica, ma ai partiti italiani. Qualche giorno fa, sollecitato ancora una volta sul tema da una giovane amica le ho risposto, e ne è uscita questa missiva che vi riporto integralmente.

La tua è una bella domanda… È da un po’ che mi accingo a scrivere un post su www.generazionevaselina.it che parla proprio di questo, ma l’articolo non esce. Inizio a scriverlo, ma poi non lo finisco mai. Non so ben dirti cosa sia: se la mancanza di chiarezza, se l’incapacità di esprimere quel che penso.
Ora provo a spiegarlo a te, ma non prometto di riuscirci.
Tutto nasce dal fatto che sono sempre più persuaso della mancanza di una identità chiara nei partiti. Con identità non intendo parole come “destra”, “sinistra”, “fascisti”, “comunisti”, “ordine e disciplina”, “padania” e tutto quel che vuoi. Intendo che in nessun partito so identificare un barlume di indirizzo, di prospettiva lungimirante, qualcosa che mi faccia intuire dove vogliono andare. Sai bene come la strada che un uomo sceglie di percorrere dice molto sia delle sue aspirazioni, che della sua persona.
Per farti un esempio: un tempo il Partito Comunista Italiano veicolava, al di là di tutte le possibili scempiaggini, l’idea che si potesse realizzare un mondo più giusto; il modo in cui esso perseguiva questo suo ideale ci parlava sia del fine che perseguiva, sia di chi il PCI era.
Oggi nel PD non c’è nulla di ciò. Si parla di tutto e del contrario di tutto. Il PDL? Tanto peggio. Nel PD la parola “democratico” dice della apertura indiscriminata, ma che diviene indefinita, ad ogni prospettiva; nel PDL la parola “Libertà” significa la possibilità di parlare di qualunque tema, ma senza affrontarne alcuno. Prova ne è il fatto che sostanzialmente il dibattito politico degli anni di governo di Berlusconi è stato incentrato esclusivamente sui suoi problemi. Ciò non accade solo perché Berlusconi ne è capo e demiurgo, ma perché effettivamente non hanno una idea organica di come affrontare alcuno dei nostri problemi, per risolvere i quali si sono candidati. E non credere che nel PD le cose siano diverse. Non hanno un progetto, una idea, una prospettiva. Cambiano opinione praticamente dalla mattina alla sera al solo scopo di esistere. Sono delle macchine da voto, dei catalizzatori di consenso, ma di identità, di idee, di prospettive, di futuro…nulla! Sondano le nostre opinioni per poi provare a dirci che quel che in quel momento ci sembra utile è sempre stato il loro particolare (vedi la Lega e le questioni immigrazione e sicurezza). L’unica cosa che distingue PDL e, come ironicamente dice Grillo, il PD meno L, è che almeno nel PDL a vender fumo sono bravi.
Stante in questi termini la mia visione dei partiti (ha parlato di due principali, ma gli altri non li ritengo diversi), capisci come non posso che rinunciare al credere nei partiti che oggi ci sono.
Io voglio fare politica, perché so che con essa posso dare significato alla mia esistenza e potrò un giorno provare a rileggerla secondo un senso. Voglio fare politica, perché so che non farla è da idioti. Voglio fare politica perché può essere l’espressione più alta dell’esperienza umana, che è esperienza di comunione, di socialità, di reciprocità, di servizio e di ricerca della verità; te lo dico anche con le parole di papa Paolo VI: “Prendere sul serio la politica nei suoi diversi livelli – locale, regionale, nazionale e mondiale – significa affermare il dovere dell’uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell’umanità. La politica è una maniera esigente – ma non è la sola – di vivere l’impegno cristiano al servizio degli altri” (cfr. Octogesima adveninens, n. 46)  o come molti hanno tradotto questa espressione: la politica è la più alta forma di carità.
Ciò che conta è quindi iniziare a farla, non importa con chi. Mi piacerebbe avesse importanza il ‘con chi’; vorrei poter scegliere, ma la scelta richiede che esistano almeno due alternative. Nel caso italiano esistono due facce della stessa medaglia, ma la moneta che ti ritrovi in mano è la medesima. Se così è, e purtroppo ne sono convinto, ciò che resta da fare è entrarci e portarvi, per quando difficile e per quando indefinita possa apparire la cosa, una visione di futuro, di prospettiva, una identità. Se ho ragione, sarà facile riempire di senso dei meccanismi che sono solo contenitori vuoti; se mi sbaglio, tanto meglio, significherebbe che invece abbiamo dei veri partiti.

Davide

Uguali e diversi

8 Marzo 2009 4 commenti

«Una grande massa di uomini non hanno mai avuto voce nella società, proprio perché non sono stati messi in condizione di esprimersi, di avere la padronanza del linguaggio. Oggi le cose non sono affatto cambiate. Il benessere e i vantaggi che il progresso moderno offre, non bastano a eliminare le ingiustizie di cui soffrono coloro che sono soltanto sfruttati: bisogna dar loro la parola, il senso di uguaglianza di fronte a chi sa parlare…»

(Intervista ad Agostino Ammannati, in Dalla parte dell’ultimo, Neera Fallaci – 1974)

Oggi proverò a dirvi perché secondo me il primario obiettivo del nostro partito non sono economia, ospedali, strade, sicurezza, ecc., ma rendere gli italiani dei cittadini. È evidente che si tratta di una cosa che si sarebbe dovuta fare già da tempo, ma che evidentemente o non è stata fatta, o nelle modalità con cui la si è tentata, non ha funzionato. Sta di fatto che un paese per essere democratico, come detto in altre occasioni, non deve solo avere istituzioni democratiche, ma deve soprattutto avere dei cittadini. Perché dico che non abbiamo dei cittadini? Ho già accennato a questo fatto in “Malati di shopping“. Il fatto di poter comprare, almeno in linea teorica qualunque cosa, ci ha illusi d’esser diventati tutti uguali; il mercato non fa distinzioni di razza, sesso, età, cultura, rende tutti uguali.

«La scelta del consumatore è oggi un valore di per sé; l’attività di scegliere conta più di ciò che viene scelto, e le situazioni vengono elogiate o censurate, apprezzate o stigmatizzate a seconda della gamma di scelte in vetrina. […] Laddove la risorse abbondano si può sempre sperare, a torto o a ragione, di “sopravvivere” o “anticipare” le cose, di poter tenere il passo dei sempre mutevoli obiettivi; ciò potrebbe indurre a sottovalutare i rischi e l’insicurezza e ad assumere che la profusione di scelte compensi abbondantemente i disagi del vivere al buio, di non essere mai sicuri di dove la lotta abbia fine o se avrà fine.

(Zygmunt Bauman, Modernità liquida – 2000)

Un tempo le differenze tra ricchi e poveri erano evidenti, sia dal punto di vista del potere di acquisto, sia, e soprattutto, dal punto di vista culturale. Il prete, il dottore, il farmacista, non erano delle autorità per ragioni economiche, lo erano principalmente per ragioni culturali. La povertà era soprattutto povertà intellettuale, mancanza di mezzi e di strumenti per conoscere, per interpretare, per scegliere. Chi abita la campagna ha sentito certamente racconti che parlano di ossequiosi inchini al signore, di come ci si sentiva diversi, inferiori, rispetto a chi aveva studiato, rispetto a chi conosceva. Mi si permetta una breve divagazione: non tutti sanno che la parola “ciao”, che quotidianamente milioni di italiani usano per salutarsi deriva dal veneziano: s-ciao, s-ciavo ‘(sono suo) schiavo’, era il saluto che i contadini erano usi fare al passaggio del signore. Non si trattava di deferenza o di riguardo, ma di religiosa soggezione a chi conosceva. È la cieca obbedienza (1) di chi ignora, quando si trova di fronte a chi sa. Non a caso uno dei sinonimi di conoscere è appunto “padroneggiare”. Ma qui sta la differenza tra il cittadino e il suddito. Chi conosce è padrone, sovrano; chi non conosce, chi ignora è suddito.

Art. 1.

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.

La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

(Costituzione Italiana)

Basta la costituzione a renderci sovrani? O è forse la carta di identità, o la tessera elettorale a renderci cittadini? Se non tutti sono sovrani, ma solo alcuni lo sono, mentre altri, la maggior parte, sono sudditi, allora non è vero che si è in una democrazia, non è vero che si è in una repubblica, ma solo che si ha un ordinamento repubblicano. È l’uguaglianza dei cittadini a rendere democratico uno stato; questo significa la scritta che campeggia nei tribunali “La legge è uguale per tutti”. La questione è quindi questione di giustizia. Non c’è giustizia, se c’è chi è padrone e chi è servo.

La domanda, che ormai i più si aspetteranno, è: c’è giustizia in Italia? E cioè: ci sono ancora servi? La mia risposta sarà altrettanto attesa. Secondo me ci sono tanti, forse più servi di un tempo, secondo me non c’è giustizia, e la cosa interessante è che per dirlo non ho bisogno di rifarmi al presidente Berlusconi. Non c’è giustizia, perché ci sono uomini e donne in Italia che ignorano il loro ruolo, che ignorano le loro responsabilità, che ignorano i loro doveri, che ignorano il peso del loro voto. Vorrei precisare che l’esistenza – secondo me in numeri smisurati – di questi uomini non significa la totale mancanza di cittadini, ma che anche chi ha coscienza di esserlo, finisce per non poterlo essere. Sulla carta siamo tutti cittadini, ma nella realtà rischia di non esserlo nessuno. Mi spiego: è come se tutti avessimo una formula1, ma solo pochi fossimo dei piloti. Immaginate il caos alla partenza: chi spegne il motore, chi va in testa coda, chi si schianta contro chi lo precede. Finisce che anche chi è pilota, per quanto bravo, si trova bloccato e impotente. Questa è giustizia al ribasso. Rende tutti uguali, perché nessuno ha nulla. Può sembrare democratico, ma non lo è. Se abbatto un sovrano (ad es. il re), ma non rendo tutti sovrani, non ho creato una democrazia, ho solo creato i presupposti affinché si instauri, al posto del vecchio re, un nuovo tiranno.

Certo, la fame è una ingiustizia, il non avere accesso a cure sanitarie è una ingiustizia, in non avere un lavoro dignitoso o addirittura non averlo è una ingiustizia. Esistono centinaia di forme di ingiustizia, e ognuno di noi ne avrà subita qualcuna e di qualche altra si sarà giovato. C’è una forma di ingiustizia che secondo me, però, va combattuta prima delle altre: l’ingiustizia culturale, cioè l’ignoranza. Quell’ignoranza che sta all’origine del fatto che in Italia, nonostante ci sia una facoltà universitaria ogni piè sospinto, ci siano pochissimi giovani che vogliano occuparsi di politica. Mancano cittadini perché c’è ingiustizia, c’è ingiustizia perché c’è ignoranza, c’è ignoranza perché c’è idiozia.

«La vita di ogni essere umano è irripetibile e insostituibile: con chiunque di noi, per umile che possa essere, nasce una avventura la cui dignità sta nel fatto che nessuno potrà mai tornare a viverla nello stesso modo. Per questo sostengo che ognuno ha il diritto di godersi la vita il più umanamente possibile, senza sacrificarla né agli dèi né alla patria e neppure alla causa dell’umanità sofferente. Ma d’altra parte, per essere pienamente umani, dobbiamo vivere fra gli umani, ovvero non solo come gli umani, ma anche con gli umani. Insomma dobbiamo vivere in società. Disinteressarsi alla società umana, che oggi, mi sembra, ha le dimensioni del mondo intero e non più quelle del quartiere, della città o della nazione, significa comportarsi con la stessa intelligenza di chi, trovandosi a bordo di un aereo pilotato da un ubriaco, minacciato da un dirottatore pazzo armato di una bomba e con un motore in avaria (puoi aggiungere, se vuoi, qualche altra circostanza terrificante), invece di unirsi agli altri passeggeri sani di mente per salvarsi, si mette a fischiettare guardando fuori dal finestrino o reclama il vassoio del pranzo. Gli antichi greci (gente sveglia e intelligente che, come sai, ammiro in modo speciale) definivano chi non si occupava di politica con il nome di idiótes; questa parola significava persona isolata, che non ha nulla da offrire agli altri, ossessionata dai piccoli problemi di casa sua e in fin dei conti alla marcé di tutta la comunità. Da quell’idiótes greco deriva il nostro idiota attuale, e non c’è bisogno che ti spieghi cosa vuol dire».

(Politica per un figlio, Fernando Savater, 1993)

Mancano cittadini perché c’è ingiustizia, c’è ingiustizia perché ci sono idioti, ci sono idioti perché c’è ignoranza. La priorità è quindi formare coscienze civiche, formare dei cittadini. Se c’è idiozia il resto non serve a nulla. Gli abitanti dei paesi del blocco sovietico avevano lavoro, casa assicurata, cure mediche, ciò che non avevano era la democrazia, non erano veri cittadini, e questo ha finito per renderli poveri, anche economicamente. Il lavoro, la casa, le strade, gli ospedali, la sicurezza le si fanno anche in regimi non democratici, a volte meglio (vedi sistema sanitario di Cuba), ma non sono mai giusti. Qualcuno mi dirà: “Bei discorsi, ma adesso le priorità sono altre!”

In questo periodo di crisi finanziaria, economica e sociale leggo e sento, sempre più spesso, di discorsi che invitano a posporre le regole, perché si è in un momento difficile. L’idea che si veicola è quella secondo la quale, di fronte all’emergenza, le regole, che dovrebbero aver a che fare con la giustizia, possono essere soprassedute. In sostanza, le regole varrebbero solo quando tutto va bene, quando le cose vanno male, si invita a non seguirle. La questione è quanto meno interessante. “Conviene bene, che, accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi” diceva Macchiavelli nei suoi Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (3), ma in politica, e qui Machiavelli si ingannava fatalmente, sono i mezzi che devono giustificare il fine.

Lo scopo, e quindi l’intrinseca misura della politica è la giustizia. Se una politica, quindi un partito, non persegue la giustizia, non ha motivo di esistere, e la ingiustizia da colmare nel nostro paese, è la mancanza di cittadinanza degli Italiani, la loro idiota ignoranza civica.

C’è bisogno di tornare a scuola! Prosegui la lettura…

Si, se poe fare – Yes we can

24 Gennaio 2009 Nessun commento

Perché dovreste sostenere il nostro partito piuttosto che partiti più blasonati, organizzati, conosciuti e, soprattutto, più ricchi del nostro?

La domanda è più che legittima, e ha a che fare soprattutto con l’ultima questione: anche nel caso in cui si abbiano buone idee ci vogliono i soldi per portarle avanti, per sostenerle, per promuoverle, per diffonderle; e noi i soldi non li abbiamo.

La domanda, però, trascura almeno due aspetti che sono invece da ritenere imprescindibili: il fatto che l’Italia ha istituzioni democratiche e che il problema dei soldi è un problema fino a che qualcuno non dimostra che non è un problema.

Partiamo dalla questione della democrazia. E facile mostrare come gli italiani non abbiano a cuore la democrazia e le istituzioni che la reggono diversamente da come accade ad altri popoli (si veda “Non è l’ottimismo il profumo della vita – eligo, ergo sum“) e quanto questo sia determinante nel nostro avere una classe politica deprimente. Ciò non significa, però, che la Repubblica Italiana non goda di un sistema elettivo democratico, cioè popolare. Prova ne è il fatto che Silvio Berlusconi sia il presidente del Consiglio per la terza legislatura. La mia affermazione non va presa con ironia. Credo realmente che, dopo ciò che mezza Italia ha fatto per delegittimarlo, il fatto che gli italiani lo abbiano rieletto è segno che il voto popolare esiste e conta. Quindi è realistico poter godere della fiducia del popolo italiano; da un punto di vista tecnico e pratico è, cioè, possibile diventare classe dirigente.

Dopo questa mia affermazione molti staranno passando alla questione successiva: i soldi. Berlusconi è riuscito proprio perché ha tanti soldi. È possibile che parte del successo di Silvio Berlusconi in politica sia dovuto alla ingente quantità di pecunia di cui dispone e alle aziende pubblicitarie di cui è proprietario. Ma una cosa non va trascurata anche qui. Se una persona arriva ad un risultato adottando certi metodi, o seguendo un determinato percorso, significa forse che qui metodi o quel percorso sono gli unici possibili? No. Significa solamente che quei metodi e quel percorso sono praticabili e, a patto di averne i mezzi, si possono ripercorrere. Ma non fa il caso nostro.

Come detto ciò non deve essere motivo di scoramento. Spesso le vie più agevoli non sono praticate solamente per il fatto di non essere mai venute in mente a nessuno. Fino a che ci concentriamo su un metodo, su una strategia, su un modello, fatichiamo a vedere che ne esistono altri.

Cosa vedete nell’immagine? Il vecchio in primo piano con la mano appoggiata al petto, o i pastori sotto l’arco e il cane che dorme?

Se fate fatica a vederle ambedue comprenderete ancora meglio il nocciolo della questione. E se anche avete visto entrambe le figure subito, avrete notato come esse siano alternative, cioè non potete vederle contemporaneamente.

È un banale esempio, ma ci dice della nostra tendenza, dopo aver dato un certo significato ad una figura, a non vedere che essa può averne altri; e ci serve a comprendere che così funziona per la totalità delle cose umane, quali sono la politica, il mercato, le relazioni interpersonali, ecc. Non sono mosse da leggi o regole immutabili, ma da credenze e da abitudini; funzionano fino a che crediamo, vogliamo, ci serve che funzionino, dopo di che non contano più nulla.

Se ci stacchiamo dall’idea che solo chi ha soldi, solo chi ha le giuste conoscenze, solo chi è nato dalla famiglia o dal clan giusto può arrivare a certe vette, potremo iniziare a vedere che il mondo può funzionare diversamente, che l’Italia può anelare ad una classe dirigente di cui andare orgogliosa, che un mondo diverso è possibile.

È ovvio che fare questo sforzo non genera di per se stesso l’alternativa; essa va trovata. Ma il trovarla esige questo esercizio. Dobbiamo scuotere la testa, strofinarci gli occhi e sforzarci di pensare che possa esserci qualcos’altro. Forse esso non ci apparirà subito, ma è l’unico modo di vederlo.

Si può fare, ma non perché esso rappresenta una candida illusione, ma perché se decidiamo che il cambiamento siamo noi, in questo stesso momento noi stiamo cambiando le cose. Non dobbiamo mai scordare che i prodotti della realtà umana esistono perché le nostre menti continuamente li alimentano e li reificano. Non esiste nulla di più semplice che cambiarli, basta iniziare a pensarla in modo diverso, iniziare a dirlo e chiedere che altri lo dicano; all’inizio si può anche passare per strani/scemi, ma è così che si cambia il mondo; forse anche con i soldi, ma è molto più difficile, chiedete a Berlusconi.

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Sondaggio: perchè ai giovani non piace la politica?

17 Gennaio 2009 1 commento

Visto che l’ultimo post era più un esercizio letterario che una vera e propria argomentazione su giovani e politica, vi propongo un sondaggio sul rapporto tra queste due entità. È un tema fondamentale nella prospettiva di coinvolgere e di avvicinare alla politica il mondo giovanile, quindi è importante raccogliere più opinioni e possibili idee a riguardo.

La base popolare, l’essere cioè vicini alla gente e saperne coglierne i problemi e le necessità rappresentano per un movimento o per un partito qualcosa di irrinunciabile. Diversamente si finisce per diventare delle macchine da voto autoreferenziali, volte solo a mantenere il proprio stato, e completamente avulse dai problemi reali delle persone. Vorremmo che il nostro movimento e il nostro partito coalizzassero le forze giovani del nostro paese; al contrario facciamo ogni giorno esperienza di giovani e ragazzi che sembrano essere completamente disinteressati ai temi sociali, della giustizia, del bene comune, del futuro. Sembra quasi che essi abbiano una sorta di repulsione verso la politica.

La domanda è: perché ai giovani non piace la politica?

Le opzioni che abbiamo individuato sono:

  • Non c’entra con la loro vita, hanno altro a cui pensare;
  • Non ne hanno bisogno;
  • È un ambiente dove si finisce per essere compromessi e collusi;
  • Non capiscono cosa sia;
  • Hanno capito che la politica non migliora nulla;
  • Tanto fumo e poco arrosto;
  • Non c’è un leader capace di coinvolgerli;
  • Vivono alla giornata, mentre la politica esige uno sguardo sul futuro;
  • È fatta di ideali e gli ideali non esistono;
  • Hanno tutto, perché dovrebbero perdere il loro tempo?
  • Altro.

A destra trovi il riquadro dove puoi esprimere il tuo pensiero a riguardo. Puoi scegliere una o due opzioni.

Se le risposte non ti soddisfano e hai scelto “Altro” ti invitiamo a commentare questo post e suggerirci il tuo pensiero o di contattarci tramite la pagina ‘Chi siamo -> Contattaci’.

Rispondete numerosi e invitate vostri amici a rispondere al sondaggio.

Pedigree

6 Gennaio 2009 Nessun commento

Essendo ormai giunti all’anno zero del nostro movimento credo sia ora di mettere nero su bianco quelle che sono le sequenze genetiche comuni agli appartenenti, e a quanti intenderanno appartenere, al movimento politico che vogliamo creare.

Mentre fino a poco tempo fa parlavo di partito, ora preferisco parlare di movimento. Ciò non perché la prospettiva del partito sia tramontata, ma piuttosto perché ritengo che esso non descriva appieno il significato di ciò che vogliamo fare. La parola “partito” dice di una chiara posizione nell’arena politica, posizione che dovremo assumere, ma solo in un secondo momento. L’etimologia del termine, come è evidente, ha a che fare con la “parte”. Ciò a definire chiaramente dei confini rispetto ad una necessaria contro-parte; quindi una chiara identificazione nella diversità, una chiara ap-parte-nenza.

Perché dico che il partito è la seconda fase del nostro cammino? Come molti di noi sanno, come più volte anche a me è stato rinfacciato, in Italia di partiti ne esistono anche troppi. In questo ultimi decenni abbiamo assistito alla nascita e alla morte di decine di gruppuscoli e partiti. Essi volevano appunto essere la rappresentanza politica di una, spesso piccola, parte. Non vi è nulla di male in questa operazione; ci si trova a condividere dei valori, delle priorità, delle aspettative sul futuro, e le si prova a perseguire. Si prende insomma una parte. Dunque il partito viene dopo perché è l’applicazione pratica, è quello stare materialmente nelle istituzioni, che si origina  in una cultura politica, in un senso della partecipazione, in una prospettiva del costruire assieme il futuro, che viene prima e che va oltre il partito. Perciò parlo di movimento, il partito ne è solo una appendice.

Non è dunque nel partito che sta la nostra novità e la nostra differenza. Prima del partito noi dobbiamo aver cura di essere un movimento politico. Prima di tutto dobbiamo essere i promotori di un diverso modo di concepire e di pensare la cosa pubblica (res publica in latino), di concepire e di fare la politica; il partito diventa quindi lo strumento per portare questo diverso modo di concepire e di pensare il nostro essere cittadini nelle istituzioni e nel governo. Ma non è tutto qui; non si tratta solo di una mera questione logico-concettuale.

L’emergenza italiana non è una emergenza partitica, come detto non mancano i partiti, ciò che manca (che è ciò che ci spinge a frequentare queste pagine, a intavolare questi discorsi) è la mancanza della politica. Quando dico che il movimento politico deve venir prima del partito lo dico perché penso che in Italia, prima che di un nuovo partito, ci sia bisogno di un nuovo modo di concepire la politica e il ruolo della politica nel nostro coesistere. Io individuo tre caratteristiche più una quarta che dovrebbero rappresentare il pedigree del nostro movimento, lo stile del nostro agire, i tratti identitari del nostro essere: esse sono coraggio, mediazione, fiducia, e quindi corresponsabilità.

Il coraggio (dal latino coraticum, aggettivo derivante da cor, cordis cuore) è la virtù umana, che fa’ si che chi ne è dotato non si sbigottisca di fronte ai pericoli, affronti con serenità i rischi, non si abbatta per dolori fisici o morali e, più in generale, affronti a viso aperto la sofferenza, il pericolo, l’incertezza e l’intimidazione. Il coraggio non è né arroganza, né ottusità, ma indica un moto che viene dal cuore appunto e che ha a che fare con il metercisi in prima persona. Non è accettabile che il nostro futuro sia pensato e costruito da chi quel futuro non lo vivrà. Dobbiamo avere il coraggio di affermare che il futuro inizia ora. Dobbiamo avere il coraggio di dire con fermezza che la vita è nostra e che la nostra vita va ben oltre il nostro ristretto spazio esperienziale; oggi più che mai, la nostra vita riguarda tutto il mondo, e tutto il mondo riguarda la nostra vita.

La mediazione, invece, non è la media delle opinioni, ma la virtù forse più importante della politica: è quella prospettiva, quel modo di approcciare le cose e i problemi che ha a che fare con lo “stare nel mezzo”. Gli antichi dicevano «in medio stat virtus» che non vuol dire che la verità sta nel mezzo, come spesso si intende, ma la virtù; e la virtù è la abituale e salda capacità di un uomo di eccellere in qualcosa, di compiere un certo atto in maniera ottimale, letteralmente “modo perfetto d’essere”. In altre parole è il vecchio proverbio l’ottimo è nemico del bene; e non significa né andar d’accordo con tutti, né compromettere i propri valori, ma imparare ad essere il collante, il cuscinetto tra gli opposti.

Anche la fiducia deriva il suo significato dal latino e ha a che fare con il fidarsi, ma  fiducia in cosa? Con la consapevolezza del fatto che i nostri giorni non permettono fedi ideologiche o verità assolute, e che al contempo non possiamo rinunciare alla speranza nella giustizia e in un mondo migliore, pena perdere il senso della politica (1),  dobbiamo saper creare un nuovo senso di fiducia. Dobbiamo dire alle donne e agli uomini che è in se stessi che devono confidare; poiché unici responsabili di tutto non possono più fidarsi di ideali né di nuove divinità, devono poter ricominciare a credere in qualcosa che parli di loro al di là di loro stessi.

Infine la corresponsabilità. È forse la cosa più innovativa e caratteristica del nostro movimento. Non avendo più grandi valori o grandi ideali che ci accomunano, ma dovendo comunque trovare la strada della convivenza e della giustizia, c’è da imparare a condividere il potere, c’è da imparare ad essere corresponsabili, a cogliere che le mie scelte non sono mai solo mie, e non possono riferirsi solo a me (2). Essa è forse la più difficile da costruire, perché vuole il coraggio, esige mediazione, richiede fiducia.

Io vedo in questi quattro esercizi le basi che dobbiamo condividere nel voler creare un movimento politico e quindi un partito. Ognuno di noi sarà poi portatore e raccoglierà attorno a se valori, idee, istanze e bisogni anche molto diversi, ma sarà imparando ad esercitare queste virtù che potremo costruire un mondo più giusto.

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I valori di un partito

6 Dicembre 2008 Nessun commento

Nei post precedenti abbiamo visto come parlare di valori, di ideali, di senso, sia diventato oggi insignificante. Abbiamo anche visto come non sia realisticamente pensabile il poterli o il doverli recuperare, perché il loro non esserci più è costitutivo dell’uomo di oggi, e chi li volesse riprendere compirebbe un’operazione assurda, oltre che anacronistica. L’uomo che oggi conosciamo è inesorabilmente post-valoriale, post-ideale, post-. Egli è talmente post- rispetto a tutto, da non essere in grado, in fondo, di affermare chi è, se non rispetto a ciò che non c’è più.

Il nostro problema, per dirlo con le parole di Nietzsche, è che siamo post- rispetto a qualunque cosa, ma non siamo ancora oltre, non siamo ancora all’oltreuomo (1). Il nostro dirci post-moderni, post-industriali, ci racconta della nostra incapacità a definirci se non in quanto dopo, un dopo che non è più il prima, ma che non è ancora altro. Il mio desiderio è di assistere alla venuta dell’oltreuomo, e in queste pagine mi pongo, tra le altre cose, l’obiettivo di traghettare questa venuta. In più occasioni ho affermato che il nuovo è qui, che l’oltreuomo già c’è, che i tempi sono maturi. Il problema è, più che altro, di averne coscienza o di avere il coraggio di iniziare ad affermare la sua presenza. L’oltreuomo è una di quelle cose che esistono solo nel momento in cui le dici. Dirlo, questo dobbiamo fare. Smettere di dire che siamo post-, e iniziare a dire che siamo oltre-, oltre-moderni, oltre-industriali, ecc.

La mia non è una menata da psicologi sulla negatività di concepirci “post” e quindi di avere una concezione del sé legata a metaforiche figure genitoriali, piuttosto di essere in grado di costruire un proprio io e una propria personalità autonomi. Chi mi conosce sa che aborro queste interpretazioni e le rifuggo.

Ma, siccome le cose non sono fino a che non le diciamo, non sono fino a quando non le nominiamo, affinché l’oltreuomo si manifesti, diventi vero, si disveli, esso va nominato. Possiamo averlo in testa, può essere nei nostri pensieri, nelle nostre azioni, essere già fra noi, ma fino a che non gli diamo un nome nessuno lo riconoscerà.

In fondo dire che si è oltre non è poi così difficile. Allora inizio io, anche se chi vuol dare un limite al mio egocentrismo si dispererà:

«Io sono oltre!» Ripetetelo con me: «Io sono oltre!», «Io sono oltre!», «Io sono oltre!»…

Ovviamente tutto ciò ha senso solo se l’oltreuomo è già effettivamente fra noi, se già abita in noi, se siamo realmente all’oltre-, altrimenti si tratterà di un puro esercizio linguistico.

Cercherò allora di dire perché e in che senso, siamo giunti al passo dell’oltre; perché credo che non si debba più parlare di post-, ma che si debba finalmente riconoscere la svolta che l’uomo sta facendo. Credo inoltre che nel comprendere questo salto stia la novità del nostro partito, il perché egli si debba definire nuovo, e quindi quale sia la cosa da dire a chi ci chiede ragione dell’averlo costituito. Si tratta di cose che ho già detto in altre forme; cercherò di condensarle in un discorso organico.

Il pensiero moderno ha condotto l’uomo a lidi dai quali egli non può far ritorno. Questo non deve essere ragione di rammarico o di nostalgia, ma di presa di coscienza. La messa in discussione di tutte le verità rivelate in favore della ragione (la creazione del mondo, la sovranità per grazia divina, solo per fare due esempi) e, di conseguenza, di tutte le autorità che su di esse e da esse traevano la loro legittimità, ha senza dubbio reso all’uomo un servigio inimmaginabile, e l’ha liberato da credenze e schiavitù ataviche. Se ci si pensa, la grande scoperta che sta dietro a questo processo è la libertà della ragione umana. La libertà della ragione, nell’uomo occidentale, abituato ad identificarsi nella propria ragione, è diventata per trasposizione, potremmo dire per proprietà transitiva, libertà umana (probabilmente un gravissimo errore semantico). Essa è diventata il fondamento, ma anche l’idolo a cui è stata sacrificata ogni altra cosa. Se ci si pensa, però, ciò era inevitabile. Tutto è iniziato con la messa in discussione di alcune autorità: la chiesa, la bibbia, l’ancien régime, ecc. Questi atti, presi di per sé, non facevano che sanare delle ingiustizie e dare libertà all’uomo; ma la messa in discussione dell’una o dell’altra autorità, dell’una o dell’altra verità, a lungo andare, non ha semplicemente demolito le stesse, ha insinuato l’idea che nessuna autorità e nessuna verità siano assolute; col tempo la cosa è divenuta un dato di fatto. Fin dalla metà dell’800 i pensatori hanno preso a chiamare questo fenomeno nichilismo.

«Nichilismo: manca il fine, manca la risposta al “perché?”; che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi si svalutano»

(F. Nietzsche, 1887, frammento VIII, II, 12)

Mettere in discussione un valore, una autorità o una verità, non significa semplicemente cercare di dimostrarne l’infondatezza, significa dare per scontato che non ci possano essere valori assoluti, autorità date, verità inconfutabili.

«L’uomo moderno crede sperimentalmente ora a questo, ora a quel valore, per poi lasciarlo cadere; il circolo dei valori superati e lasciati cadere è sempre più vasto; si avverte sempre più il vuoto e la povertà di valori; il movimento è inarrestabile – sebbene si sia tentato in grande stile di rallentarlo. Alla fine l’uomo osa una critica dei valori  in generale; ne riconosce l’origine; conosce abbastanza per non credere più in nessun valore; ecco il pathos, il nuovo brivido… Quella che racconto è la storia dei prossimi due secoli…»

F. Nietzsche, 1887-88, frammento VIII, II, 266)

Questo modo di pensare è divenuto parte costitutiva del nostro essere; come ho detto più volte, valori e ideali non possono più contare per noi.

«Nietzsche chiama il nichilismo “il più inquietante (unheimlich) fra tutti gli ospiti”, perché ciò che esso vuole è lo spaesamento (Heimatlosigkeit) come tale. Per questo non serve a niente metterlo alla porta, perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, esso si aggira per la casa. Ciò che occorre è accorgersi di quest’ospite e guardarlo bene in faccia.»

(M. Heidegger, La questione dell’essere – sopra la linea, 19555-1956, p. 337)

La conseguenza inevitabile di questo processo è, oltre alla svalutazione di tutti i valori, la centralità che assumono la ragione umana e la sua libertà. La conseguenza del nichilismo è necessariamente il relativismo. Se la verità perde il suo valore assoluto, allora ogni cosa diviene relativa, ogni questione è opinabile. In questo senso Nietzsche può annunciare la morte di Dio, “Gott ist tot”.

Quale è il risultato di tutto questo processo? Che ogni singolo uomo è assolutamente libero, arbitro, solo.

Libero perché è sull’emancipazione della ragione umana che egli fonda il proprio ego (1).

Arbitro perché, morto Dio, egli rimane l’unica entità a poter decidere del bene e del male (2).

Solo perché, in questa sconfinata libertà, egli non ha valori, ideali, verità che lo possano guidare, né fedi, né conoscenze, né certezze da poter invocare.

«Allora, quando la trascendenza perde la sua forza vincolante e ammutolisce, l’uomo abbandonato a se stesso reclama la sua libertà. Anzi, non gli resta che prendersela: l’uomo è la libertà stessa poiché ormai non è altro che quello che progetta di essere, e tutto gli è permesso. Che questa libertà finisca poi per essere una libertà disperata, la quale infonde più angoscia che pienezza d’essere, è un fatto con il quale l’esistenzialismo ha cercato di convivere.»

(F. Volpi, Il nichilismo, Editori la Terza, 2005)

L’unica cosa che ci può permettere di dare una definizione dell’uomo di oggi è la libertà, o per essere più precisi, la libertà della ragione umana. Solo il concetto di libertà, nella sua accezione più larga e assoluta, può delineare l’essenza dell’uomo contemporaneo. Essa, però, se da un lato si caratterizza come la più grande conquista  dell’umanità, dall’altro ne rappresenta la più grande angoscia, il pathos, il “nuovo brivido”.

Come già detto in altri articoli questa libertà sembra essere senza scampo, perché, nel momento in cui la si esercita si finisce inevitabilmente per perderla, e con essa la stessa propria umanità. Come uscire, allora, da questo paradosso che ha attanagliato e incatenato le generazioni che ci hanno preceduto e che sembra impedire al mondo di fare il passo che all’inizio chiamavo dal post– all’oltre-?

Se l’unico modo di definirci rimane la libertà, essa non riuscirà mai a dare ragione del nostro essere, resteremo sempre prigionieri della sua indeterminatezza. La vita non fa che chiederci di scegliere, e su queste scelte casca l’asino, su queste scelte scopriamo tutta l’angoscia che la libertà procura. L’angoscia, come dice Kiekegaard, «è la vertigine della libertà». La libertà assoluta provoca vertigine, le scelte pesano tutte sulle spalle del singolo uomo, all’uomo è consegnata la chiave di ogni possibile soluzione; certo l’incertezza può sedurre l’uomo, poiché dietro l’incertezza vi è comunque la libertà assoluta delle sue scelte, ma è proprio qui che Kierkegaard avverte una contraddizione: da un lato la libertà assoluta sembra essere un bene, dall’altro è la stessa fonte dell’angoscia.

Quale soluzione? Abbiamo già visto, Chi siamo noi!? – parte prima“, che la scienza sembra essere una facile tentazione, però inabile nel dare risposte capaci di significato. Anche la conoscenza, come abbiamo visto in “Conoscere la conoscenza obbliga“, sembra non essere la soluzione ai mali dell’uomo, mentre il non decidere tenendosi sempre aperte più possibilità, senza mai diventare adulti, analizzato in “Circondati da bambini?“, ha evidenziato il blocco mostruoso messo in atto dalle generazioni che ci hanno preceduto.

L’unico modo di superare il vincolo che la circolarità della libertà pone a se stessa è la responsabilità.

Ciò significa fare, come dicevo all’inizio del mio scritto, un cambiamento di prospettiva, un cambiamento di weltanschauung, che è anche un cambiamento di termini. Non è nella possibilità di scegliere che forgio il mio essere, perché la possibilità allarga, anziché definire, solo lo scegliere mi definisce. Certo il definire ha a che fare con l’essere finiti, e con la sua finitezza l’uomo deve ritornare a fare i conti (si veda  “La Stanza“). Ma a parte ciò, scegliere significa confrontarsi con l’angoscia, perché arbitri e soli, ma se si è responsabili si può guardare in faccia la propria libertà ed esercitarla, altrimenti la si terrà li, chiusa nella cassaforte, come chi ha un tesoro, ma non lo spende.

Ecco dove sta la novità e, se vogliamo chiamarlo così, il valore del nostro partito: noi non siamo il partito della libertà, siamo il partito della scelta, della responsabilità. Noi chiediamo ai nostri elettori di rappresentarli non perché siamo quelli che più li assomigliano, o cercano di assomigliarli, ma perché in noi trova forma la loro responsabilità. Per questo il nostro partito, più che essere partito democratico deve essere partito della responsabilità. In questo senso dicevo che oggi o si fa politica o non si è.

Per queste ragioni il nostro tratto distintivo dove essere la corresponsabilità, non l’adesione a dei valori o a degli ideali, ma l’adesione al proprio essere uomini.

Non dobbiamo essere un partito supermarket, dove ognuno può trovare ciò che più gli assomiglia, ma diventare strumenti di costruzione della propria e dell’altrui cittadinanza. Non dobbiamo piacere, dobbiamo appartenere.

Non dire alla gente: «tranquilli, adesso arriviamo noi e risolviamo tutto». Questo è sì, ciò che la gente vorrebbe sentirsi dire, ma è il contrario di ciò di cui ha bisogno. Non dobbiamo essere il partito “del fare”, ma del “far fare”. La sfida, me ne rendo conto, è anzitutto culturale, ci sono da aprire milioni di occhi, più facile è vendere anche noi qualche prodotto come fan tutti, ma non è questo il partito che vogliamo nè quello di cui c’è bisogno.

Dobbiamo dare agli uomini e alle donne di oggi l’occasione di esercitare la propria responsabilità. Questa è la speranza che deve saper trasmettere il nostro partito.

«La speranza ha due bellissimi figli: l’indignazione e il coraggio. L’ indignazione per le cose che non vanno. Il coraggio per cercare di cambiarle»

(Agostino di Ippona, noto anche come Sant’Agostino)

(1) Basti il “cogito, ergo sum” di Cartesio, dove il pensare diviene fondamento dell’essere.

(2) Si pensi al semplice fatto che, ciclicamente, siamo chiamati, tramite i referendum, a dire se è bene o male interrompere una gravidanza, interrompere una vecchia vita, modificare i geni, far nascere chi sappiamo sarà disabil, ecc.

Non è l’ottimismo il profumo della vita – Eligo, ergo sum

16 Novembre 2008 2 commenti

I dubbi su come muoversi per fare di generazionevaselina.it un movimento capace di cambiamento e non un sito letto da qualche decina di persone mi attanagliano nel quotidiano. La domanda di fondo è: può un gruppo di persone di periferia mettere in piedi qualcosa che diventi, seppur nel corso degli anni, un movimento di carattere nazionale?

L’abitudine alle cose italiane ci dice che per fondare un partito in Italia bisogna essere politici già affermati (es. Mastella), personaggi noti (es. Di Pietro), o Silvio Berlusconi; nella migliore delle ipotesi, bisogna avere tanti soldi. Se questa affermazione risponde al vero allora dovremmo salutarci qui e lasciar perdere ogni cosa.

Ma è proprio così? Certo, fare un partito e fare politica non è certo qualcosa di semplice, agevole e scontato, ma se in Italia non si può fare, questo non implica semplicemente il fatto che ci conviene chiudere il sito, significa qualcosa di ben più grave. Significa che non siamo in una democrazia. Il termine democrazia deriva dal greco δήμος (démos): popolo e κράτος (cràtos): potere, ed etimologicamente significa governo del popolo. Per quanto possa apparirvi fanatico questo richiamo al significato letterale del termine, è chiaro che o io posso diventare Presidente del Consiglio, oppure non siamo in una democrazia.

Per me a questo punto diventa importante insistere su un concetto già trattato in queste pagine, ma che, a mio avviso deve diventare la parola d’ordine, il motto del nostro partito.

«Avere il coraggio di dire a giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo ne davanti agli uomini ne davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto».

(Lettera si giudici, don Lorenzo Milani)

Luigi XIV
Davide XIV

Io l’ho scoperto leggendo don Lorenzo Milani. Dico scoperto perché per me ha rappresentato una sorta di rivelazione, una disvelamento, una rivoluzione della mia weltanschauung. Dico scoperto, perché è uno di quei concetti che non mi hanno insegnano a scuola. In qualche rara ora di educazione civica probabilmente mi hanno detto che «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» (1), ma non mi hanno fatto capire cosa significava, che implicazioni ha questa espressione. Spesso si liquida questa frase  riferendola semplicemente all’istituzione del voto. Secondo questa interpretazione saremmo sovrani perché possiamo votare. Nulla di più menzognero.

Ciò che ho invece scoperto è che possedere la sovranità, il potere assoluto, la signoria, non mi rende semplicemente fruitore di una tessera elettorale, del diritto di voto, mi rende responsabile di ogni cosa succeda in Italia. Lo ripeto, perché deve essere chiaro, limpido, deve diventare per noi ovvio, e lo faccio nuovamente con la parole di don Lorenzo Milani: dobbiamo “avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, […] che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto“.

Ciò significa che la mia sovranità non la esercito solo mettendo una “X” in una casella piuttosto che in un’altra. Sono sovrano, quindi responsabile, sia prima, sia durante, che dopo il voto.

Non è che quando voto delego la mia sovranità ai seicentotrenta deputati e trecentoquindici senatori. Essi sono solo chiamati a rappresentarmi (2). Un esempio, spero lapalissiano per capirci su cosa significa rappresentanza (3): quando nomino un avvocato, gli do mandato di rappresentare i miei interessi, ma non è che, se mi condannano, la pena la paga l’avvocato; egli mi rappresenta, ma la responsabilità è tutta mia. Lo stesso vale per i deputati. Hanno ricevuto il mandato di rappresentare i cittadini, ma la sovranità, la responsabilità resta dei cittadini elettori (4).

Tutto ciò deve interrogarci e farci riflettere a fondo sul significato di farci rappresentare. Non è bello che qualcuno decida per me (5), soprattutto se la responsabilità (non solo le conseguenze) delle sue decisioni ricade su di me. E con ciò non voglio dire che votare non serve a nulla; anzi, la prossima volta che ci capiterà di farlo, dovremmo aver chiaro in testa che stiamo facendo qualcosa di delicatissimo, di rischiosissimo per la nostra incolumità.

Mi rendo conto che il discorso è assai sottile, ma va compreso nella sua portata. È ovvio che non possiamo tutti fare i parlamentari e decidere in prima persona, anche se ciò sarebbe la massima forma di democrazia (ad Atene funzionava proprio così); è evidente che dobbiamo farci rappresentare, ma in tal caso possiamo sperare di rimanere una democrazia solo se la sovranità e la responsabilità rimangono in capo a noi. Per questo, come recita la nostra Costituzione, “i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni” (4).

Quando don Lorenzo Milani dice che “l’obbedienza non è più una virtù”, certamente si sta riferendo all’obbedienza nell’ambito militare e di fronte alla legge, ma il suo discorso ha implicazioni che vanno ben oltre il diritto all’obiezione di coscienza, significa che non abbiamo scuse, né alibi, né appigli, né pretesti che valgano, di fronte a qualunque scelta. Non possiamo più tirarci fuori.

Per l’uomo tardo-nichilista o post-nichilista, l’uomo che noi siamo, senza più ideali, senza più guide, senza più appigli, l’unica istanza sopravvissuta al disfacimento di tutto è sé stesso. Che piaccia o meno, la morte di dio, la fine di ogni religione e morale calata dall’alto, la fine di ogni verità in favore del più assoluto relativismo, se da un lato ci ha liberato da ogni orpello, dall’altro ci ha resi soli e unici responsabili di ogni cosa, di ogni scelta. Possum eligere, ergo sum; posso scegliere, quindi sono; questo è il fondamento dell’uomo contemporaneo, ma al contempo il suo fardello. Era ingenuo pensare di far morire dio, credendo che ciò si limitasse solo a renderci finalmente liberi e indipendenti. Non abbiamo solo ereditato la possibilità di poter scegliere il bene e il male, abbiamo ereditato anche la responsabilità di questa scelta; della morte di dio dobbiamo prenderci ogni conseguenza.

Scegliere significa mettere in gioco la propria libertà. Giocarsi la libertà significa scommettere sulla propria scelta. Il salto all’oltreuomo, per riprendere una espressione di Nietzsche, sta nel passare dal contemporaneo sentirsi uomini, perché finalmente liberi e arbitri di tutto, al futuribile trovare il metro di misura della propria umanità nello scegliere e nel saper portare la responsabilità della propria scelta. L’oltreuomo, l’uomo che si è liberato, è l’uomo che sceglie e risponde della sua scelta.

In tutto questo gioco di responsabilità e di scelta c’è quindi da imparare come maturare la propria responsabilità e come giocarsela in termini di corresponsabilità, che diviene poi la sostanza della nostra futura appartenenza al partito.

Tirando le somme, allora, di tutto questo discorso: non possiamo più tirarci fuori, non può più esistere chi dice “a me non importa la politica”, “io a queste cose non mi interesso”, “io non c’entro”, “sono scelte che hanno fatto altri”. Se vogliamo essere donne e uomini del futuro dobbiamo imparare la responsabilità e come far si che il raggiungimento di una necessaria corresponsabilità non divenga motivo di astensione. Oggi astenersi non significa più starsene a casa dal seggio, significa rinunciare ad essere donne/uomini. E non importa chi sarà a giudicarci; per chi crede in Dio sarà Dio, per chi crede nell’umanità sarà la storia. La questione è che dobbiamo scegliere, perché a questo serve la libertà, perché solo questo può dare significato alla nostra esistenza (6).

Allora non è l’ottimismo il profumo della vita, non è sperare che se pensiamo che le cose andranno bene, le cose finiranno per andar bene, ma che solo se saremo responsabili del buon andamento delle cose, le cose potranno andar bene.

Da qui in poi, o si fa politica, o non si è.

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Essere normali in Italia

17 Ottobre 2008 1 commento

Sabato 11 ero al Palanet di Padova ad assistere allo spettacolo “Delirio” di Beppe Grillo. Beppe, come è ormai sua abitudine, ha ospitato i ragazzi del meetup di Padova e li ha proposti alle persone presenti come l’alternativa dal basso ai politicanti di mestiere che governano lo sfacelo a cui stiamo assistendo. Gli amici del meetup di Padova intendono presentare una lista civica e con questa candidarsi alla guida del comune di Padova. Vederli là, sotto al palco, una decina di persone normali che si presentavano a gente normale, mi ha ovviamente interrogato sulla stretta somiglianza che lega il nostro movimento a quello del popolo di Grillo. Vedendoli mi son chiesto: ma quante speranze hanno di beccare qualche voto? Quanta della gente presente nel palazzetto, all’atto del voto garantirebbe la propria preferenza a queste persone normali?

L’uso ripetuto di questo termine ha assillato i miei pensieri. I ragazzi del meetup continuavano a dire «siamo persone normali», ma dove? Quanti erano i normali dentro quel palazzetto? Normale, in Italia, è fare niente, stare a guardare, aspettare che qualcuno risolva il problema per te. Normale è andare a sentire uno come Grillo e, anche se con un po’ di amarezza, ridere delle cose che dice. Questo in Italia è normale.

In un qualunque altro paese del mondo (non solo occidentale) sarebbe, invece, normale uscire da una serata del genere e prendere a legnate il primo politico che passa, come monito al resto della categoria. Ad ogni spettacolo di Beppe Grillo, negli altri paesi del mondo, sarebbe normale che seguissero tafferugli con la polizia e sommosse. Ma da noi non è normale; da noi non è neppure straordinario, è una ipotesi remota! Ovviamente non sono qui ad incitare alcuno alla violenza, o sostenere che la strada da percorrere sia quella del manganello. E neppure Grillo lo fa. Voglio solo interrogarmi e chiedere a voi, soprattutto in riferimento al nostro progetto politico: quale è la cosa da fare? Mi chiedo, soprattutto : gli “amici di Beppe Grillo” sono persone anormali che chiedono il voto a persone normali? E noi di generazionevaselina.it siamo normali?

Lascio in sospeso queste domande e provo a dirvi cosa intendo dire quando parlo di italiani normali e non. Vi trascrivo l’estratto di un articolo che, in riferimento a ciò, ho trovato particolarmente interessante:

«[…] Questa è l’ultima immagine che mi rimarrà dell’Italia (1). Un paese disorganizzato, ma a cui è difficile rimproverare i suoi difetti. Un paese invivibile, ma dove la vita è bella. Un paese impossibile, ma gradevole. Basta un sorriso, una battuta, un sonoro “vaff…” o una “truffa” innocente per aggirare l’ostacolo, per cancellare le difficoltà. Forse è proprio per questo che gli italiani eleggono e rieleggono continuamente un mago. Un uomo capace di far scomparire i loro mali con un colpo di bacchetta magica».

Jean-Jaques Bozonnet, fino a luglio corrispondente di Le Monde dall’italia, ora corrispondente a Madrid. Tratto da “dal Mago italiano al toro spagnolo”, Internazionale – n765 – anno 15.

In Italia normale è che il treno sia in ritardo, che non ci sia parcheggio, che si debbano passare dieci uffici per la pratica più banale, che il lavoro lo trovi chi è raccomandato; è normale che il politico rubi o che chi è preparato si veda superato da chi conosce le persone “giuste”, ma questo, forse, accade anche da altre parti. La differenza, rispetto agli altri Paesi, non sta nel fatto che là queste cose non succedano, o non sia normale che succedano. Se è normale che queste cose possano accadere anche altrove, difforme è la modalità con cui il cittadino le affronta: la partecipazione, l’attivismo, il fare lobby negli altri Paesi. La soluzione all’italiana, invece, è la furbizia! In Italia normale è che non ci sia altra soluzione che l’arrangiarsi, che l’essere furbi, e che chi è più furbo vince. La furbizia è normalità a tal punto che nessuno crede ci sia un altro modo; che la legalità e l’onestà siano vie percorribili, tutti le auspicano, ma chiunque sa che in Italia non funziona così.

Questa “normalità” pervade in tal modo il cittadino italiano che egli è arrivato al punto di temere l’alternativa. Egli sa che, bene o male, per chi impara ad arrangiarsi, l’Italia è un paese che offre opportunità incredibili, dove se sai muovere le giuste leve e oliare i giusti ingranaggi puoi fare qualunque cosa, anche il presidente del consiglio. Questa è la grande verità che ogni Italiano conosce e con cui ogni italiano impara a convivere. L’alternativa, che potrebbe tradursi con la partecipazione dei cittadini alle decisioni, con un maggiore impegno civico, con il fare politica da parte di tutti i gli italiani, è qualcosa di alieno, a cui non siamo abituati; si tratterebbe di metterci a fare cose che non pratichiamo e che non siamo sicuri portino a risultati tangibili. La democrazia all’Italiana, la democrazia del “fai da te”, la democrazia dei “furbi”, per quanto possa essere disarmante e inefficiente, rappresenta pur sempre una certezza, e con questa il cittadino italiano ha imparato ad arrangiarsi.

Sarebbe interessante e per nulla superfluo chiedersi, a questo punto, cosa sia la normalità. Probabilmente molti di noi se lo sono chiesti più volte, e volendo essere semplicistici, direi che ognuno di noi sa che essa non esiste, ma che tutti cercano di appartenervi. La frase che ho appena detto nasconde due cose, che però vanno chiarite: la prima è che il “non esserci” della normalità è un “non esserci” oggettivo, ma che al contempo è un “esserci” significativo; cioè, in termini oggettivi, non possiamo dire cosa sia normale o cosa non lo sia (il più delle volte assumiamo quale normalità o l’abitudine della maggioranza o ciò che la tradizione ha sedimentato), ma al contempo non possiamo negare che il concetto di normalità abbia sulla nostra esperienza di vita una influenza talmente grande da potercene oscurare il significato. La seconda è che tutti ambiamo alla normalità, nessuno vuole sentirsi diverso. Ma se scopriamo di essere anormali, discordanti, devianti? O ci omologhiamo, o dobbiamo fare in modo che il nostro modo di concepire, di sentire, di pensare e di essere diventi la norma.

Allora, tornando agli amici di Beppe, e di riflesso a noi. Quante speranze hanno di prender voti persone che sono apertamente contro la normalità? Che si collocano come l’alternativa a quel sistema che, bene o male, da secoli regge l’Italia? Che da secoli, seppur con grandi disuguaglianze, ha sempre dato da mangiare a tutti? Capite che c’è un rischio che corrono gli “amici di Beppe Grillo” di Padova, e che corriamo noi di generazionevaselina.it: quello che la gente si accorga che non siamo normali (2). Il problema è che chi è anormale è facilmente assimilabile al deviante, e il deviante è pericoloso, turba la quiete, turba la normalità. Le persone normali, non votano quelli strani.

Concludendo mi chiedo: cosa dobbiamo fare? Siamo destinati a non beccare mezzo voto, o baratteremo qualche preferenza in cambio delle nostre idee e ci omologheremo al resto del sistema, diventando normali anche noi? O esiste una terza via? È possibile convincere gli italiani che è realizzabile un diverso modo di essere italiani? Ci crederanno o preferiranno rimanere nella vecchia via, dissestata, pericolante, ma che, in fondo, li riporta sempre a casa?

(1) L’articolo fa riferimento ad una disavventura che il giornalista ha avuto a causa di un disservizio di PosteItaliane.
(2) Molti potrebbero sentirsi offesi o poco rappresentati quando dico che non siamo normali, ma è un’altra espressione per dire che siamo altro dal passato; è la stessa cosa di quando dico che siamo moralmente ed eticamente superiori,a chi ci ha preceduto, è che detta in quel modo è più apprezzabile. Dobbiamo però aver coscienza del fatto che, detta in un modo, o in un altro, questa cosa ci rende diversi e pericolosi. Capite che in una prospettiva democratica il fatto che la gente possa temere quello che noi vorremmo fare non è problema da poco.

Made in Italy

1 Settembre 2008 1 commento

Sono tentato di scrivere un articolo sulla vicenda Alitalia. Mi sento sodomizzato in un modo così sublime da permettere di comprendere in tutta la sua portata l’effetto anal-gesico della vaselina. Mi pare infatti che questa vicenda rappresenti appieno il motivo che sta alla base del nome scelto per questo nostro sito: ce lo mettano in quel posto, purché che non faccia troppo male. Nei giorni scorsi ho provato a condividere il mio malessere derivante da ciò che sta avvenendo ad Alitalia (approfondisci qui e qui) con una amica. Lei non stava seguendo la vicenda e non ne era quindi informata, ma, esprimendo la propria opinione sul fatto, mia disse: «io sono d’accordo sul fatto di avere una linea aerea di bandiera…ce l’anno tutti i maggiori paesi!». La frase ha irritato ogni mio lembo di pelle e ho risposto, ironicamente, che un paese moderno deve avere una software house di bandiera, una fabbrica di cellulari di bandiera, e una serie di altre cose con una bandierina attaccata da qualche parte. Allora chiariamo due cose:

vaselinata n.1: la compagnia di bandiera è quella compagnia di proprietà di uno Stato. Se il ministero del tesoro la vende ad un francese o ad un italiano non c’è differenza; in ogni caso non si avrà più una compagnia di bandiera.

vaselinata n.2: se invece siamo preoccupati di avere una compagnia aerea di proprietà italiana vi segnalo che attualmente ne esistono 21 (vedi qui).

vaselinata n.3: se è così importante per gli italiani la compagnia aerea che usano, perché allora il 73% (cfr. qui) viaggia con compagnie straniere?

Ma non vi tedio oltre con la questione Alitalia; se per me è motivo di sdegno non è detto che lo sia per chiunque. Voglio solo partire da questo aneddoto per riprendere il nostro percorso di avvicinamento al nascituro partito. Ci sono due cose che mi fanno alterare in tutta questa questione: la perdita di memoria a cui assistiamo, ma ne ha già parlato il Lò nel suo articolo “conoscere la conoscenza obbliga”, e la questione dell’italianità. Mi soffermo su quest’ultima.

Da un po’ di tempo a questa parte ci si dice che una cosa, se fatta in Italia, è migliore che se fatta altrove, che il made in Italy è il non plus ultra, che siamo i maestri del design, che la cucina italiana è la migliore e così via. Di contro c’è l’altra campana, quella di chi sostiene che l’Italia è quasi un Paese da terzo mondo. Costoro dicono che gli altri paesi ci snobbano; che chi è bravo e vuol far carriera deve andarsene il prima possibile e via discorrendo. È probabile che ad ognuno di noi sia capitato di trovarsi coinvolto in qualche discorso di questo tipo e di aver magari sostenuto l’una o l’altra tesi. Ho la mia opinione a riguardo, ma non non mi interessa dire chi ha ragione; a dire il vero me ne importa ben poco. Al contrario mi interessa molto ciò che sembra star dietro ad entrambe le posizioni. Ho come l’impressione che sia chi difende l’italianità, che chi la snobba soffra in fondo dello stesso male; che abbiano entrambi un problema di identità. Non sanno chi sono. L’uno si sforza allora di riconoscersi in tutti i modi in quel poco di buono che la sua nazione gli offre; l’altro in qualunque cosa gli altri paesi facciano meglio del proprio. Il problema non è da poco. Che le persone debbano correr dietro a pizze, automobili, bei vestiti o pessime figure di politici e fughe di cervelli, per dare un significato alla propria appartenenza, dice, da un lato di persone che rincorrono una identità che non possiedono, dall’altro, però, di uno stato, di una comunità, di famiglie, di una società, insomma, che non sanno essere lo spazio entro cui un cittadino riconosce e plasma la propria storia.

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A me paiono pessimi esempi di cittadinanza entrambi. Sia a chi difende l’italianità, sostantivo che in un mondo globalizzato, in un mondo multietnico, soprattutto in un Paese che vede scorrere nelle proprie vene sangue etrusco, veneto, latino, gallico, greco, punico, palestinese, erule, ostrogoto, franco, arabo, normanno, e poi spagnolo, francese e austriaco, unito da poco più di 150 anni, chiedo cosa significhi mai “essere italiano” e quali siano i contorni di questa identità. Allo stesso modo trovo inconcludente e privo di alcuna progettualità chi non fa che cantare le lodi degli altri paesi, e se volete per gli stessi motivi. Ma con ciò no voglio colpevolizzare chi fa questi discorsi; si tratta di pessimi cittadini (e mi ci metto dentro anch’io) perché abitanti di una pessima cittadinanza; di un Paese dove si insegna (a periodi oltretutto) educazione civica come se fosse chimica, quando andrebbe insegnata come la ginnastica, praticandola.

Nel mio post precedente suggerivo tre linee su cui concentrare gli sforzi di teorizzazione volti a porre le basi del nostro partito: famiglia, comunità e stato. Essi, se pur in forme diverse, hanno sempre rappresentato gli spazi entro cui l’uomo ha modellato la propria esperienza esistenziale; il concetto di famiglia o di comunità che ha un aborigeno è sicuramente diverso dal mio. Ciò, però, ci dice due cose su famiglia, comunità e stato: che esse possono cambiare forma, struttura, avere un peso più o meno grande nella vita delle persone e nelle diverse culture, ma anche che di esse non possiamo fare a meno.

Se nel passato, nel mondo occidentale, esse hanno risposto alla domanda di senso, di fine (si veda “pillola azzurra…”), esse ora devono rispondere ad un’altra domanda. Esse devono rimodellarsi attorno alle esigenze dell’uomo del presente, e l’uomo del presente, come abbiamo già detto più volte, non va alla ricerca di una direzione, di una meta, ma di significato. L’uomo di oggi ha bisogno di far chiarezza sulle proprie paure, sul significato da dare al futuro, sul valore della propria libertà.

Forse servirà, nei prossimi post, far chiarezza su queste cose: sul senso di insicurezza che ci pervade, la paura dell’estraneo, l’incapacità di avere uno progetto, che non è un punto di arrivo, ma indica la capacità del gettare in avanti, dell’immaginare.

Se vogliamo fare un partito (termine che parla di parte) dobbiamo chiederci se l’uomo di oggi vuol sentirsi parte, o se vuole invece identificarsi in qualcosa.

Se è necessario passare dalla teoria alla pratica del partito, bisogna anche che ci intendiamo su cosa significa fare un nuovo partito. Nuovo non può essere solo qualcosa di riferibile al nome, perché, se così è, in Italia si contano nuovi partiti ogni tre mesi. Un vero nuovo partito deve rispondere alle istanze dell’uomo del presente, e queste istanze vanno sviscerate, altrimenti si rischia di fare la solita minestra.

Saremmo degli illusi se pensassimo di fare un partito parlando la lingua e facendo le cose che fanno gli altri partiti. Essi sono più bravi e più organizzati. Possiamo farcela solo se parliamo di cose diverse, cose che hanno a che fare con l’uomo del presente. Possiamo batterli solo se ai loro occhi siamo incomprensibili. Ma non preoccupatevi, se non cadiamo nella trappola di imitare il loro stile, rappresentare il nuovo non sarà affatto difficile. Essi vivono un mondo che ormai non c’è più. Sentono le domande dell’uomo del presente, ma hanno risposte adatte all’uomo del passato. Noi siamo il futuro, perché noi viviamo il presente.

Progettare un partito significa fare un salto nel futuro, provare a dire come saranno le cose “se”. Ma questo “se”, fa riferimento a ciò che sappiamo comprendere, a ciò che sappiamo dirci, a ciò che sappiamo narrare sull’uomo del presente.

P.s. Vi propongo la prima e la seconda parte del dialogo presente nel film “Leoni per agnelli” tra prof e studente. Ha toccato le mie corde, può essere che tocchi anche le vostre:

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Giovedì 12 giugno 2008 – bis

20 Giugno 2008 Nessun commento

Molti si chiederanno come è andata la prima riunione del partito. Presto detto: ci dovremo trovare ancora e la prossima volta dovremo coinvolgere anche chi non era presente.

Decisioni non ne sono state prese, ma le idee si sono moltiplicate; nel prossimo post “Si va in scena” potete già dare un occhio ad alcune.

Per ora, quindi, auguro ancora una volta buona lettura.