Nei post precedenti abbiamo visto come parlare di valori, di ideali, di senso, sia diventato oggi insignificante. Abbiamo anche visto come non sia realisticamente pensabile il poterli o il doverli recuperare, perché il loro non esserci più è costitutivo dell’uomo di oggi, e chi li volesse riprendere compirebbe un’operazione assurda, oltre che anacronistica. L’uomo che oggi conosciamo è inesorabilmente post-valoriale, post-ideale, post-. Egli è talmente post- rispetto a tutto, da non essere in grado, in fondo, di affermare chi è, se non rispetto a ciò che non c’è più.
Il nostro problema, per dirlo con le parole di Nietzsche, è che siamo post- rispetto a qualunque cosa, ma non siamo ancora oltre, non siamo ancora all’oltreuomo (1). Il nostro dirci post-moderni, post-industriali, ci racconta della nostra incapacità a definirci se non in quanto dopo, un dopo che non è più il prima, ma che non è ancora altro. Il mio desiderio è di assistere alla venuta dell’oltreuomo, e in queste pagine mi pongo, tra le altre cose, l’obiettivo di traghettare questa venuta. In più occasioni ho affermato che il nuovo è qui, che l’oltreuomo già c’è, che i tempi sono maturi. Il problema è, più che altro, di averne coscienza o di avere il coraggio di iniziare ad affermare la sua presenza. L’oltreuomo è una di quelle cose che esistono solo nel momento in cui le dici. Dirlo, questo dobbiamo fare. Smettere di dire che siamo post-, e iniziare a dire che siamo oltre-, oltre-moderni, oltre-industriali, ecc.
La mia non è una menata da psicologi sulla negatività di concepirci “post” e quindi di avere una concezione del sé legata a metaforiche figure genitoriali, piuttosto di essere in grado di costruire un proprio io e una propria personalità autonomi. Chi mi conosce sa che aborro queste interpretazioni e le rifuggo.
Ma, siccome le cose non sono fino a che non le diciamo, non sono fino a quando non le nominiamo, affinché l’oltreuomo si manifesti, diventi vero, si disveli, esso va nominato. Possiamo averlo in testa, può essere nei nostri pensieri, nelle nostre azioni, essere già fra noi, ma fino a che non gli diamo un nome nessuno lo riconoscerà.
In fondo dire che si è oltre non è poi così difficile. Allora inizio io, anche se chi vuol dare un limite al mio egocentrismo si dispererà:
«Io sono oltre!» Ripetetelo con me: «Io sono oltre!», «Io sono oltre!», «Io sono oltre!»…
Ovviamente tutto ciò ha senso solo se l’oltreuomo è già effettivamente fra noi, se già abita in noi, se siamo realmente all’oltre-, altrimenti si tratterà di un puro esercizio linguistico.
Cercherò allora di dire perché e in che senso, siamo giunti al passo dell’oltre; perché credo che non si debba più parlare di post-, ma che si debba finalmente riconoscere la svolta che l’uomo sta facendo. Credo inoltre che nel comprendere questo salto stia la novità del nostro partito, il perché egli si debba definire nuovo, e quindi quale sia la cosa da dire a chi ci chiede ragione dell’averlo costituito. Si tratta di cose che ho già detto in altre forme; cercherò di condensarle in un discorso organico.
Il pensiero moderno ha condotto l’uomo a lidi dai quali egli non può far ritorno. Questo non deve essere ragione di rammarico o di nostalgia, ma di presa di coscienza. La messa in discussione di tutte le verità rivelate in favore della ragione (la creazione del mondo, la sovranità per grazia divina, solo per fare due esempi) e, di conseguenza, di tutte le autorità che su di esse e da esse traevano la loro legittimità, ha senza dubbio reso all’uomo un servigio inimmaginabile, e l’ha liberato da credenze e schiavitù ataviche. Se ci si pensa, la grande scoperta che sta dietro a questo processo è la libertà della ragione umana. La libertà della ragione, nell’uomo occidentale, abituato ad identificarsi nella propria ragione, è diventata per trasposizione, potremmo dire per proprietà transitiva, libertà umana (probabilmente un gravissimo errore semantico). Essa è diventata il fondamento, ma anche l’idolo a cui è stata sacrificata ogni altra cosa. Se ci si pensa, però, ciò era inevitabile. Tutto è iniziato con la messa in discussione di alcune autorità: la chiesa, la bibbia, l’ancien régime, ecc. Questi atti, presi di per sé, non facevano che sanare delle ingiustizie e dare libertà all’uomo; ma la messa in discussione dell’una o dell’altra autorità, dell’una o dell’altra verità, a lungo andare, non ha semplicemente demolito le stesse, ha insinuato l’idea che nessuna autorità e nessuna verità siano assolute; col tempo la cosa è divenuta un dato di fatto. Fin dalla metà dell’800 i pensatori hanno preso a chiamare questo fenomeno nichilismo.
«Nichilismo: manca il fine, manca la risposta al “perché?”; che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi si svalutano»
(F. Nietzsche, 1887, frammento VIII, II, 12)
Mettere in discussione un valore, una autorità o una verità, non significa semplicemente cercare di dimostrarne l’infondatezza, significa dare per scontato che non ci possano essere valori assoluti, autorità date, verità inconfutabili.
«L’uomo moderno crede sperimentalmente ora a questo, ora a quel valore, per poi lasciarlo cadere; il circolo dei valori superati e lasciati cadere è sempre più vasto; si avverte sempre più il vuoto e la povertà di valori; il movimento è inarrestabile – sebbene si sia tentato in grande stile di rallentarlo. Alla fine l’uomo osa una critica dei valori in generale; ne riconosce l’origine; conosce abbastanza per non credere più in nessun valore; ecco il pathos, il nuovo brivido… Quella che racconto è la storia dei prossimi due secoli…»
F. Nietzsche, 1887-88, frammento VIII, II, 266)
Questo modo di pensare è divenuto parte costitutiva del nostro essere; come ho detto più volte, valori e ideali non possono più contare per noi.
«Nietzsche chiama il nichilismo “il più inquietante (unheimlich) fra tutti gli ospiti”, perché ciò che esso vuole è lo spaesamento (Heimatlosigkeit) come tale. Per questo non serve a niente metterlo alla porta, perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, esso si aggira per la casa. Ciò che occorre è accorgersi di quest’ospite e guardarlo bene in faccia.»
(M. Heidegger, La questione dell’essere – sopra la linea, 19555-1956, p. 337)
La conseguenza inevitabile di questo processo è, oltre alla svalutazione di tutti i valori, la centralità che assumono la ragione umana e la sua libertà. La conseguenza del nichilismo è necessariamente il relativismo. Se la verità perde il suo valore assoluto, allora ogni cosa diviene relativa, ogni questione è opinabile. In questo senso Nietzsche può annunciare la morte di Dio, “Gott ist tot”.
Quale è il risultato di tutto questo processo? Che ogni singolo uomo è assolutamente libero, arbitro, solo.
Libero perché è sull’emancipazione della ragione umana che egli fonda il proprio ego (1).
Arbitro perché, morto Dio, egli rimane l’unica entità a poter decidere del bene e del male (2).
Solo perché, in questa sconfinata libertà, egli non ha valori, ideali, verità che lo possano guidare, né fedi, né conoscenze, né certezze da poter invocare.
«Allora, quando la trascendenza perde la sua forza vincolante e ammutolisce, l’uomo abbandonato a se stesso reclama la sua libertà. Anzi, non gli resta che prendersela: l’uomo è la libertà stessa poiché ormai non è altro che quello che progetta di essere, e tutto gli è permesso. Che questa libertà finisca poi per essere una libertà disperata, la quale infonde più angoscia che pienezza d’essere, è un fatto con il quale l’esistenzialismo ha cercato di convivere.»
(F. Volpi, Il nichilismo, Editori la Terza, 2005)
L’unica cosa che ci può permettere di dare una definizione dell’uomo di oggi è la libertà, o per essere più precisi, la libertà della ragione umana. Solo il concetto di libertà, nella sua accezione più larga e assoluta, può delineare l’essenza dell’uomo contemporaneo. Essa, però, se da un lato si caratterizza come la più grande conquista dell’umanità, dall’altro ne rappresenta la più grande angoscia, il pathos, il “nuovo brivido”.
Come già detto in altri articoli questa libertà sembra essere senza scampo, perché, nel momento in cui la si esercita si finisce inevitabilmente per perderla, e con essa la stessa propria umanità. Come uscire, allora, da questo paradosso che ha attanagliato e incatenato le generazioni che ci hanno preceduto e che sembra impedire al mondo di fare il passo che all’inizio chiamavo dal post– all’oltre-?
Se l’unico modo di definirci rimane la libertà, essa non riuscirà mai a dare ragione del nostro essere, resteremo sempre prigionieri della sua indeterminatezza. La vita non fa che chiederci di scegliere, e su queste scelte casca l’asino, su queste scelte scopriamo tutta l’angoscia che la libertà procura. L’angoscia, come dice Kiekegaard, «è la vertigine della libertà». La libertà assoluta provoca vertigine, le scelte pesano tutte sulle spalle del singolo uomo, all’uomo è consegnata la chiave di ogni possibile soluzione; certo l’incertezza può sedurre l’uomo, poiché dietro l’incertezza vi è comunque la libertà assoluta delle sue scelte, ma è proprio qui che Kierkegaard avverte una contraddizione: da un lato la libertà assoluta sembra essere un bene, dall’altro è la stessa fonte dell’angoscia.
Quale soluzione? Abbiamo già visto, “Chi siamo noi!? – parte prima“, che la scienza sembra essere una facile tentazione, però inabile nel dare risposte capaci di significato. Anche la conoscenza, come abbiamo visto in “Conoscere la conoscenza obbliga“, sembra non essere la soluzione ai mali dell’uomo, mentre il non decidere tenendosi sempre aperte più possibilità, senza mai diventare adulti, analizzato in “Circondati da bambini?“, ha evidenziato il blocco mostruoso messo in atto dalle generazioni che ci hanno preceduto.
L’unico modo di superare il vincolo che la circolarità della libertà pone a se stessa è la responsabilità.
Ciò significa fare, come dicevo all’inizio del mio scritto, un cambiamento di prospettiva, un cambiamento di weltanschauung, che è anche un cambiamento di termini. Non è nella possibilità di scegliere che forgio il mio essere, perché la possibilità allarga, anziché definire, solo lo scegliere mi definisce. Certo il definire ha a che fare con l’essere finiti, e con la sua finitezza l’uomo deve ritornare a fare i conti (si veda “La Stanza“). Ma a parte ciò, scegliere significa confrontarsi con l’angoscia, perché arbitri e soli, ma se si è responsabili si può guardare in faccia la propria libertà ed esercitarla, altrimenti la si terrà li, chiusa nella cassaforte, come chi ha un tesoro, ma non lo spende.
Ecco dove sta la novità e, se vogliamo chiamarlo così, il valore del nostro partito: noi non siamo il partito della libertà, siamo il partito della scelta, della responsabilità. Noi chiediamo ai nostri elettori di rappresentarli non perché siamo quelli che più li assomigliano, o cercano di assomigliarli, ma perché in noi trova forma la loro responsabilità. Per questo il nostro partito, più che essere partito democratico deve essere partito della responsabilità. In questo senso dicevo che oggi o si fa politica o non si è.
Per queste ragioni il nostro tratto distintivo dove essere la corresponsabilità, non l’adesione a dei valori o a degli ideali, ma l’adesione al proprio essere uomini.
Non dobbiamo essere un partito supermarket, dove ognuno può trovare ciò che più gli assomiglia, ma diventare strumenti di costruzione della propria e dell’altrui cittadinanza. Non dobbiamo piacere, dobbiamo appartenere.
Non dire alla gente: «tranquilli, adesso arriviamo noi e risolviamo tutto». Questo è sì, ciò che la gente vorrebbe sentirsi dire, ma è il contrario di ciò di cui ha bisogno. Non dobbiamo essere il partito “del fare”, ma del “far fare”. La sfida, me ne rendo conto, è anzitutto culturale, ci sono da aprire milioni di occhi, più facile è vendere anche noi qualche prodotto come fan tutti, ma non è questo il partito che vogliamo nè quello di cui c’è bisogno.
Dobbiamo dare agli uomini e alle donne di oggi l’occasione di esercitare la propria responsabilità. Questa è la speranza che deve saper trasmettere il nostro partito.
«La speranza ha due bellissimi figli: l’indignazione e il coraggio. L’ indignazione per le cose che non vanno. Il coraggio per cercare di cambiarle»
(Agostino di Ippona, noto anche come Sant’Agostino)
(1) Basti il “cogito, ergo sum” di Cartesio, dove il pensare diviene fondamento dell’essere.
(2) Si pensi al semplice fatto che, ciclicamente, siamo chiamati, tramite i referendum, a dire se è bene o male interrompere una gravidanza, interrompere una vecchia vita, modificare i geni, far nascere chi sappiamo sarà disabil, ecc.