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Dizionario del cittadino: “tolleranza”

19 Dicembre 2009 Nessun commento

La tolleranza è la predisposizione civica a convivere armoniosamente insieme a persone di credo diverso o pensiero opposto al nostro, nonché con abitudini sociali o costumi che non condividiamo. La tolleranza non è mera indifferenza, ma comporta spesso anche sopportare ciò che non ci piace: naturalmente, essere tolleranti non impedisce di formulare critiche ragionate, né obbliga a tacitare il nostro modo di pensare per non «ferire» coloro che la pensano diversamente. La tolleranza è bidirezionale: in altre parole, il prezzo che si paga a non vietare o impedire il comportamento del prossimo prevede, come contropartita, che questi si rassegni alle obiezioni o alle burle di chi ha preferenze diverse. Ovviamente, in molti casi la cortesia suggerisce la moderazione, ma è una scelta volontaria, non un obbligo di legge. Essere tolleranti non richiede di essere universalmente acquiescenti… Inoltre, ciò che si deve rispettare sono sempre le persone, non le loro opinioni o i loro comportamenti.

E naturale che la tolleranza richieda un contesto istituzionale condiviso che deve essere rispettato da tutti: chi lo nega o lo ostacola, sta negando anche il proprio diritto ad essere tollerato. Uno dei pilastri della tolleranza è limitare ciò che la compromette – cioè denunciare sia l’intolleranza che l’intollerabile – e lottare democraticamente contro di esso. Lo scrittore svedese Lars Gustafsson ha ben sintetizzato il concetto: «la tolleranza dell’intolleranza produce intolleranza». E d’altro canto, anche godere dei vantaggi della  tolleranza pubblica impone a ciascuno di rinunciare a esercitare forme di intolleranza privata. L’eccesso di suscettibilità di certi gruppi organizzati in vere e proprie lobbies è una nuova forma di intolleranza in nome di una «tolleranza» che non ammette critiche, per esempio, quando trasformano in «fobie» (islamofobia, cristianofobia, omofobia, catalanofobia e via dicendo), ovvero in una specie di malattia, qualunque commento di disapprovazione rivolto a loro. Decretare che chi non è d’accordo è una specie di malato sociale è una delle pratiche totalitarie più antiche.

Essere tolleranti non significa essere deboli, ma, al contrario, abbastanza forti e abbastanza sicuri delle proprie scelte per convivere senza scandali né timori con la diversità, purché questa rispetti la legge. Ciò che è veramente l’opposto della tolleranza è il fanatismo, spesso tipico non già dei più convinti, ma di coloro che pretendono di far tacere i propri dubbi imbavagliando e ammanettando gli altri. Come disse bene Nietzsche, «il fanatismo è l’unica forza di volontà di cui sono capaci i deboli». Il generale, le società più intolleranti sono quelle che si sgretolano più facilmente non appena, al loro interno, si autorizza l’espressione della dissidenza, che rompe con l’uniformità precostituita.

I valori di un partito

6 Dicembre 2008 Nessun commento

Nei post precedenti abbiamo visto come parlare di valori, di ideali, di senso, sia diventato oggi insignificante. Abbiamo anche visto come non sia realisticamente pensabile il poterli o il doverli recuperare, perché il loro non esserci più è costitutivo dell’uomo di oggi, e chi li volesse riprendere compirebbe un’operazione assurda, oltre che anacronistica. L’uomo che oggi conosciamo è inesorabilmente post-valoriale, post-ideale, post-. Egli è talmente post- rispetto a tutto, da non essere in grado, in fondo, di affermare chi è, se non rispetto a ciò che non c’è più.

Il nostro problema, per dirlo con le parole di Nietzsche, è che siamo post- rispetto a qualunque cosa, ma non siamo ancora oltre, non siamo ancora all’oltreuomo (1). Il nostro dirci post-moderni, post-industriali, ci racconta della nostra incapacità a definirci se non in quanto dopo, un dopo che non è più il prima, ma che non è ancora altro. Il mio desiderio è di assistere alla venuta dell’oltreuomo, e in queste pagine mi pongo, tra le altre cose, l’obiettivo di traghettare questa venuta. In più occasioni ho affermato che il nuovo è qui, che l’oltreuomo già c’è, che i tempi sono maturi. Il problema è, più che altro, di averne coscienza o di avere il coraggio di iniziare ad affermare la sua presenza. L’oltreuomo è una di quelle cose che esistono solo nel momento in cui le dici. Dirlo, questo dobbiamo fare. Smettere di dire che siamo post-, e iniziare a dire che siamo oltre-, oltre-moderni, oltre-industriali, ecc.

La mia non è una menata da psicologi sulla negatività di concepirci “post” e quindi di avere una concezione del sé legata a metaforiche figure genitoriali, piuttosto di essere in grado di costruire un proprio io e una propria personalità autonomi. Chi mi conosce sa che aborro queste interpretazioni e le rifuggo.

Ma, siccome le cose non sono fino a che non le diciamo, non sono fino a quando non le nominiamo, affinché l’oltreuomo si manifesti, diventi vero, si disveli, esso va nominato. Possiamo averlo in testa, può essere nei nostri pensieri, nelle nostre azioni, essere già fra noi, ma fino a che non gli diamo un nome nessuno lo riconoscerà.

In fondo dire che si è oltre non è poi così difficile. Allora inizio io, anche se chi vuol dare un limite al mio egocentrismo si dispererà:

«Io sono oltre!» Ripetetelo con me: «Io sono oltre!», «Io sono oltre!», «Io sono oltre!»…

Ovviamente tutto ciò ha senso solo se l’oltreuomo è già effettivamente fra noi, se già abita in noi, se siamo realmente all’oltre-, altrimenti si tratterà di un puro esercizio linguistico.

Cercherò allora di dire perché e in che senso, siamo giunti al passo dell’oltre; perché credo che non si debba più parlare di post-, ma che si debba finalmente riconoscere la svolta che l’uomo sta facendo. Credo inoltre che nel comprendere questo salto stia la novità del nostro partito, il perché egli si debba definire nuovo, e quindi quale sia la cosa da dire a chi ci chiede ragione dell’averlo costituito. Si tratta di cose che ho già detto in altre forme; cercherò di condensarle in un discorso organico.

Il pensiero moderno ha condotto l’uomo a lidi dai quali egli non può far ritorno. Questo non deve essere ragione di rammarico o di nostalgia, ma di presa di coscienza. La messa in discussione di tutte le verità rivelate in favore della ragione (la creazione del mondo, la sovranità per grazia divina, solo per fare due esempi) e, di conseguenza, di tutte le autorità che su di esse e da esse traevano la loro legittimità, ha senza dubbio reso all’uomo un servigio inimmaginabile, e l’ha liberato da credenze e schiavitù ataviche. Se ci si pensa, la grande scoperta che sta dietro a questo processo è la libertà della ragione umana. La libertà della ragione, nell’uomo occidentale, abituato ad identificarsi nella propria ragione, è diventata per trasposizione, potremmo dire per proprietà transitiva, libertà umana (probabilmente un gravissimo errore semantico). Essa è diventata il fondamento, ma anche l’idolo a cui è stata sacrificata ogni altra cosa. Se ci si pensa, però, ciò era inevitabile. Tutto è iniziato con la messa in discussione di alcune autorità: la chiesa, la bibbia, l’ancien régime, ecc. Questi atti, presi di per sé, non facevano che sanare delle ingiustizie e dare libertà all’uomo; ma la messa in discussione dell’una o dell’altra autorità, dell’una o dell’altra verità, a lungo andare, non ha semplicemente demolito le stesse, ha insinuato l’idea che nessuna autorità e nessuna verità siano assolute; col tempo la cosa è divenuta un dato di fatto. Fin dalla metà dell’800 i pensatori hanno preso a chiamare questo fenomeno nichilismo.

«Nichilismo: manca il fine, manca la risposta al “perché?”; che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi si svalutano»

(F. Nietzsche, 1887, frammento VIII, II, 12)

Mettere in discussione un valore, una autorità o una verità, non significa semplicemente cercare di dimostrarne l’infondatezza, significa dare per scontato che non ci possano essere valori assoluti, autorità date, verità inconfutabili.

«L’uomo moderno crede sperimentalmente ora a questo, ora a quel valore, per poi lasciarlo cadere; il circolo dei valori superati e lasciati cadere è sempre più vasto; si avverte sempre più il vuoto e la povertà di valori; il movimento è inarrestabile – sebbene si sia tentato in grande stile di rallentarlo. Alla fine l’uomo osa una critica dei valori  in generale; ne riconosce l’origine; conosce abbastanza per non credere più in nessun valore; ecco il pathos, il nuovo brivido… Quella che racconto è la storia dei prossimi due secoli…»

F. Nietzsche, 1887-88, frammento VIII, II, 266)

Questo modo di pensare è divenuto parte costitutiva del nostro essere; come ho detto più volte, valori e ideali non possono più contare per noi.

«Nietzsche chiama il nichilismo “il più inquietante (unheimlich) fra tutti gli ospiti”, perché ciò che esso vuole è lo spaesamento (Heimatlosigkeit) come tale. Per questo non serve a niente metterlo alla porta, perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, esso si aggira per la casa. Ciò che occorre è accorgersi di quest’ospite e guardarlo bene in faccia.»

(M. Heidegger, La questione dell’essere – sopra la linea, 19555-1956, p. 337)

La conseguenza inevitabile di questo processo è, oltre alla svalutazione di tutti i valori, la centralità che assumono la ragione umana e la sua libertà. La conseguenza del nichilismo è necessariamente il relativismo. Se la verità perde il suo valore assoluto, allora ogni cosa diviene relativa, ogni questione è opinabile. In questo senso Nietzsche può annunciare la morte di Dio, “Gott ist tot”.

Quale è il risultato di tutto questo processo? Che ogni singolo uomo è assolutamente libero, arbitro, solo.

Libero perché è sull’emancipazione della ragione umana che egli fonda il proprio ego (1).

Arbitro perché, morto Dio, egli rimane l’unica entità a poter decidere del bene e del male (2).

Solo perché, in questa sconfinata libertà, egli non ha valori, ideali, verità che lo possano guidare, né fedi, né conoscenze, né certezze da poter invocare.

«Allora, quando la trascendenza perde la sua forza vincolante e ammutolisce, l’uomo abbandonato a se stesso reclama la sua libertà. Anzi, non gli resta che prendersela: l’uomo è la libertà stessa poiché ormai non è altro che quello che progetta di essere, e tutto gli è permesso. Che questa libertà finisca poi per essere una libertà disperata, la quale infonde più angoscia che pienezza d’essere, è un fatto con il quale l’esistenzialismo ha cercato di convivere.»

(F. Volpi, Il nichilismo, Editori la Terza, 2005)

L’unica cosa che ci può permettere di dare una definizione dell’uomo di oggi è la libertà, o per essere più precisi, la libertà della ragione umana. Solo il concetto di libertà, nella sua accezione più larga e assoluta, può delineare l’essenza dell’uomo contemporaneo. Essa, però, se da un lato si caratterizza come la più grande conquista  dell’umanità, dall’altro ne rappresenta la più grande angoscia, il pathos, il “nuovo brivido”.

Come già detto in altri articoli questa libertà sembra essere senza scampo, perché, nel momento in cui la si esercita si finisce inevitabilmente per perderla, e con essa la stessa propria umanità. Come uscire, allora, da questo paradosso che ha attanagliato e incatenato le generazioni che ci hanno preceduto e che sembra impedire al mondo di fare il passo che all’inizio chiamavo dal post– all’oltre-?

Se l’unico modo di definirci rimane la libertà, essa non riuscirà mai a dare ragione del nostro essere, resteremo sempre prigionieri della sua indeterminatezza. La vita non fa che chiederci di scegliere, e su queste scelte casca l’asino, su queste scelte scopriamo tutta l’angoscia che la libertà procura. L’angoscia, come dice Kiekegaard, «è la vertigine della libertà». La libertà assoluta provoca vertigine, le scelte pesano tutte sulle spalle del singolo uomo, all’uomo è consegnata la chiave di ogni possibile soluzione; certo l’incertezza può sedurre l’uomo, poiché dietro l’incertezza vi è comunque la libertà assoluta delle sue scelte, ma è proprio qui che Kierkegaard avverte una contraddizione: da un lato la libertà assoluta sembra essere un bene, dall’altro è la stessa fonte dell’angoscia.

Quale soluzione? Abbiamo già visto, Chi siamo noi!? – parte prima“, che la scienza sembra essere una facile tentazione, però inabile nel dare risposte capaci di significato. Anche la conoscenza, come abbiamo visto in “Conoscere la conoscenza obbliga“, sembra non essere la soluzione ai mali dell’uomo, mentre il non decidere tenendosi sempre aperte più possibilità, senza mai diventare adulti, analizzato in “Circondati da bambini?“, ha evidenziato il blocco mostruoso messo in atto dalle generazioni che ci hanno preceduto.

L’unico modo di superare il vincolo che la circolarità della libertà pone a se stessa è la responsabilità.

Ciò significa fare, come dicevo all’inizio del mio scritto, un cambiamento di prospettiva, un cambiamento di weltanschauung, che è anche un cambiamento di termini. Non è nella possibilità di scegliere che forgio il mio essere, perché la possibilità allarga, anziché definire, solo lo scegliere mi definisce. Certo il definire ha a che fare con l’essere finiti, e con la sua finitezza l’uomo deve ritornare a fare i conti (si veda  “La Stanza“). Ma a parte ciò, scegliere significa confrontarsi con l’angoscia, perché arbitri e soli, ma se si è responsabili si può guardare in faccia la propria libertà ed esercitarla, altrimenti la si terrà li, chiusa nella cassaforte, come chi ha un tesoro, ma non lo spende.

Ecco dove sta la novità e, se vogliamo chiamarlo così, il valore del nostro partito: noi non siamo il partito della libertà, siamo il partito della scelta, della responsabilità. Noi chiediamo ai nostri elettori di rappresentarli non perché siamo quelli che più li assomigliano, o cercano di assomigliarli, ma perché in noi trova forma la loro responsabilità. Per questo il nostro partito, più che essere partito democratico deve essere partito della responsabilità. In questo senso dicevo che oggi o si fa politica o non si è.

Per queste ragioni il nostro tratto distintivo dove essere la corresponsabilità, non l’adesione a dei valori o a degli ideali, ma l’adesione al proprio essere uomini.

Non dobbiamo essere un partito supermarket, dove ognuno può trovare ciò che più gli assomiglia, ma diventare strumenti di costruzione della propria e dell’altrui cittadinanza. Non dobbiamo piacere, dobbiamo appartenere.

Non dire alla gente: «tranquilli, adesso arriviamo noi e risolviamo tutto». Questo è sì, ciò che la gente vorrebbe sentirsi dire, ma è il contrario di ciò di cui ha bisogno. Non dobbiamo essere il partito “del fare”, ma del “far fare”. La sfida, me ne rendo conto, è anzitutto culturale, ci sono da aprire milioni di occhi, più facile è vendere anche noi qualche prodotto come fan tutti, ma non è questo il partito che vogliamo nè quello di cui c’è bisogno.

Dobbiamo dare agli uomini e alle donne di oggi l’occasione di esercitare la propria responsabilità. Questa è la speranza che deve saper trasmettere il nostro partito.

«La speranza ha due bellissimi figli: l’indignazione e il coraggio. L’ indignazione per le cose che non vanno. Il coraggio per cercare di cambiarle»

(Agostino di Ippona, noto anche come Sant’Agostino)

(1) Basti il “cogito, ergo sum” di Cartesio, dove il pensare diviene fondamento dell’essere.

(2) Si pensi al semplice fatto che, ciclicamente, siamo chiamati, tramite i referendum, a dire se è bene o male interrompere una gravidanza, interrompere una vecchia vita, modificare i geni, far nascere chi sappiamo sarà disabil, ecc.

Non è l’ottimismo il profumo della vita – Eligo, ergo sum

16 Novembre 2008 2 commenti

I dubbi su come muoversi per fare di generazionevaselina.it un movimento capace di cambiamento e non un sito letto da qualche decina di persone mi attanagliano nel quotidiano. La domanda di fondo è: può un gruppo di persone di periferia mettere in piedi qualcosa che diventi, seppur nel corso degli anni, un movimento di carattere nazionale?

L’abitudine alle cose italiane ci dice che per fondare un partito in Italia bisogna essere politici già affermati (es. Mastella), personaggi noti (es. Di Pietro), o Silvio Berlusconi; nella migliore delle ipotesi, bisogna avere tanti soldi. Se questa affermazione risponde al vero allora dovremmo salutarci qui e lasciar perdere ogni cosa.

Ma è proprio così? Certo, fare un partito e fare politica non è certo qualcosa di semplice, agevole e scontato, ma se in Italia non si può fare, questo non implica semplicemente il fatto che ci conviene chiudere il sito, significa qualcosa di ben più grave. Significa che non siamo in una democrazia. Il termine democrazia deriva dal greco δήμος (démos): popolo e κράτος (cràtos): potere, ed etimologicamente significa governo del popolo. Per quanto possa apparirvi fanatico questo richiamo al significato letterale del termine, è chiaro che o io posso diventare Presidente del Consiglio, oppure non siamo in una democrazia.

Per me a questo punto diventa importante insistere su un concetto già trattato in queste pagine, ma che, a mio avviso deve diventare la parola d’ordine, il motto del nostro partito.

«Avere il coraggio di dire a giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo ne davanti agli uomini ne davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto».

(Lettera si giudici, don Lorenzo Milani)

Luigi XIV
Davide XIV

Io l’ho scoperto leggendo don Lorenzo Milani. Dico scoperto perché per me ha rappresentato una sorta di rivelazione, una disvelamento, una rivoluzione della mia weltanschauung. Dico scoperto, perché è uno di quei concetti che non mi hanno insegnano a scuola. In qualche rara ora di educazione civica probabilmente mi hanno detto che «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» (1), ma non mi hanno fatto capire cosa significava, che implicazioni ha questa espressione. Spesso si liquida questa frase  riferendola semplicemente all’istituzione del voto. Secondo questa interpretazione saremmo sovrani perché possiamo votare. Nulla di più menzognero.

Ciò che ho invece scoperto è che possedere la sovranità, il potere assoluto, la signoria, non mi rende semplicemente fruitore di una tessera elettorale, del diritto di voto, mi rende responsabile di ogni cosa succeda in Italia. Lo ripeto, perché deve essere chiaro, limpido, deve diventare per noi ovvio, e lo faccio nuovamente con la parole di don Lorenzo Milani: dobbiamo “avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, […] che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto“.

Ciò significa che la mia sovranità non la esercito solo mettendo una “X” in una casella piuttosto che in un’altra. Sono sovrano, quindi responsabile, sia prima, sia durante, che dopo il voto.

Non è che quando voto delego la mia sovranità ai seicentotrenta deputati e trecentoquindici senatori. Essi sono solo chiamati a rappresentarmi (2). Un esempio, spero lapalissiano per capirci su cosa significa rappresentanza (3): quando nomino un avvocato, gli do mandato di rappresentare i miei interessi, ma non è che, se mi condannano, la pena la paga l’avvocato; egli mi rappresenta, ma la responsabilità è tutta mia. Lo stesso vale per i deputati. Hanno ricevuto il mandato di rappresentare i cittadini, ma la sovranità, la responsabilità resta dei cittadini elettori (4).

Tutto ciò deve interrogarci e farci riflettere a fondo sul significato di farci rappresentare. Non è bello che qualcuno decida per me (5), soprattutto se la responsabilità (non solo le conseguenze) delle sue decisioni ricade su di me. E con ciò non voglio dire che votare non serve a nulla; anzi, la prossima volta che ci capiterà di farlo, dovremmo aver chiaro in testa che stiamo facendo qualcosa di delicatissimo, di rischiosissimo per la nostra incolumità.

Mi rendo conto che il discorso è assai sottile, ma va compreso nella sua portata. È ovvio che non possiamo tutti fare i parlamentari e decidere in prima persona, anche se ciò sarebbe la massima forma di democrazia (ad Atene funzionava proprio così); è evidente che dobbiamo farci rappresentare, ma in tal caso possiamo sperare di rimanere una democrazia solo se la sovranità e la responsabilità rimangono in capo a noi. Per questo, come recita la nostra Costituzione, “i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni” (4).

Quando don Lorenzo Milani dice che “l’obbedienza non è più una virtù”, certamente si sta riferendo all’obbedienza nell’ambito militare e di fronte alla legge, ma il suo discorso ha implicazioni che vanno ben oltre il diritto all’obiezione di coscienza, significa che non abbiamo scuse, né alibi, né appigli, né pretesti che valgano, di fronte a qualunque scelta. Non possiamo più tirarci fuori.

Per l’uomo tardo-nichilista o post-nichilista, l’uomo che noi siamo, senza più ideali, senza più guide, senza più appigli, l’unica istanza sopravvissuta al disfacimento di tutto è sé stesso. Che piaccia o meno, la morte di dio, la fine di ogni religione e morale calata dall’alto, la fine di ogni verità in favore del più assoluto relativismo, se da un lato ci ha liberato da ogni orpello, dall’altro ci ha resi soli e unici responsabili di ogni cosa, di ogni scelta. Possum eligere, ergo sum; posso scegliere, quindi sono; questo è il fondamento dell’uomo contemporaneo, ma al contempo il suo fardello. Era ingenuo pensare di far morire dio, credendo che ciò si limitasse solo a renderci finalmente liberi e indipendenti. Non abbiamo solo ereditato la possibilità di poter scegliere il bene e il male, abbiamo ereditato anche la responsabilità di questa scelta; della morte di dio dobbiamo prenderci ogni conseguenza.

Scegliere significa mettere in gioco la propria libertà. Giocarsi la libertà significa scommettere sulla propria scelta. Il salto all’oltreuomo, per riprendere una espressione di Nietzsche, sta nel passare dal contemporaneo sentirsi uomini, perché finalmente liberi e arbitri di tutto, al futuribile trovare il metro di misura della propria umanità nello scegliere e nel saper portare la responsabilità della propria scelta. L’oltreuomo, l’uomo che si è liberato, è l’uomo che sceglie e risponde della sua scelta.

In tutto questo gioco di responsabilità e di scelta c’è quindi da imparare come maturare la propria responsabilità e come giocarsela in termini di corresponsabilità, che diviene poi la sostanza della nostra futura appartenenza al partito.

Tirando le somme, allora, di tutto questo discorso: non possiamo più tirarci fuori, non può più esistere chi dice “a me non importa la politica”, “io a queste cose non mi interesso”, “io non c’entro”, “sono scelte che hanno fatto altri”. Se vogliamo essere donne e uomini del futuro dobbiamo imparare la responsabilità e come far si che il raggiungimento di una necessaria corresponsabilità non divenga motivo di astensione. Oggi astenersi non significa più starsene a casa dal seggio, significa rinunciare ad essere donne/uomini. E non importa chi sarà a giudicarci; per chi crede in Dio sarà Dio, per chi crede nell’umanità sarà la storia. La questione è che dobbiamo scegliere, perché a questo serve la libertà, perché solo questo può dare significato alla nostra esistenza (6).

Allora non è l’ottimismo il profumo della vita, non è sperare che se pensiamo che le cose andranno bene, le cose finiranno per andar bene, ma che solo se saremo responsabili del buon andamento delle cose, le cose potranno andar bene.

Da qui in poi, o si fa politica, o non si è.

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Chi siamo noi!? – parte seconda

19 Aprile 2008 Nessun commento

A distanza di qualche settimana riprendo il mio discorso sulla weltanschauung, discorso che avevo lasciato a metà. La prima parte, infatti, se lasciata sola, rischia di apparire come un tentativo di saggio accademico o come un esercizio filosofico, mentre il suo senso va colto come necessaria introduzione a quello che è il centro del mio pensiero su generazionevaselina.it, su cosa vorrei che fosse e su cosa vorrei rappresentasse.

Il titolo di questi post «chi siamo noi!?» porta con se diversi significati: chi siamo noi che scriviamo su generazionevaselina.it; chi siamo noi come uomini; chi siamo noi come generazione a metà…

Da quest’ultimo «chi siamo noi» vorrei ripartire con il mio discorso. A me pare di poter dire che siamo una generazione a metà; a metà tra due mondi, o meglio tra due weltanschauung, tra due visioni dello stesso mondo. La nostra esperienza di vita rischia di stare nel mezzo di due macrosistemi, nel mezzo di due modi di dare significato alla vita, l’uno che sta morendo, l’altro che sta nascendo, ma i cui lineamenti non sono ancora maturi.

Il mio ragionamento, lo ammetto, o è una genialata, uno ponte gettato sul ha-da-venire, oppure al contrario rappresenta una puttanata, una cagata pazzesca di fantozziana memoria. Non so quale delle due, ma provate a far finta per un solo istante che si tratti della prima opzione. Immaginate fino alla fine di questo post che il modo di significare il mondo, questa weltanschauung di cui abbiamo parlato fino ad ora, stia mutando; che stia avvenendo quanto accade nelle rivoluzioni scientifiche di cui parla Thomas S. Kuhn nel suo saggio La struttura delle rivoluzioni scientifiche.

C’è un paradigma scientifico. Esso rappresenta per la scienza quello che nei nostri discorsi rappresenta la weltanschauugn per la vita.

«Con tale temine voglio indicare conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo, forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca.» (T.S. Kuhn, 1962 trad. it. p. 10).

Kuhn mostra come anche nella scienza, a far da fondo non vi sono verità, ma “modelli di problemi e soluzioni accettabili”.

«Lo sfondo culturale, quindi, è uno degli artefici fondamentali della ricerca. Un ricercatore che si ritiene immune dal condizionamento socioculturale è semplicemente un illuso, perché il sapere di sfondo domina la sua mente sotto le vesti di una teoria implicita della realtà.» (G. Porzionato, Prolegomeni allo studio della personalità – seconda edizione ampliata, 2001 p. 61)

Vivere significa anzitutto comprendere che dietro al mio modo di concepire l’esistenza sta una visione della vita che non è mia, ma che mi è stata data dal mio tempo e che, se io sento mia, è perché appartengo a questo tempo. La cosa più importante da capire è che vedere le cose in un determinato modo, significa muovercisi all’interno secondo quel determinato modo; significa fare alcune scelte, anziché farne delle altre; significa che i valori cambiano. Significa che le cose non hanno più la stessa importanza di un tempo; alcune sono più importanti, altre, che magari in passato erano prioritarie, ora diventano marginali.

Per tornare al nostro problema iniziale, cosa sostengo allora rispetto al cambiamento di weltanschauung?

Semplicemente sto maturando l’idea secondo la quale, per diverse ragioni che, magari in prossimi post, potremmo anche provare a analizzare, il nostro sia un tempo di passaggio. Nella storia è già successo diverse volte. La weltanschauung dell’uomo non è sempre stata la stessa. La cose del mondo, pur rimanendo in se stesse immutate, hanno significato cose diverse per gli uomini. Sostengo che sta avvenendo proprio ora una di queste rivoluzioni. Le cose del mondo iniziano a significare cose diverse. Chi vive all’interno della vecchia weltanschauung è inorridito da ciò che vede. Si strappa le vesti di fronte alla perdita di valori delle nuove generazioni. Non comprende che non abbiamo perso niente, abbiamo solo cambiato prospettiva.

Kuhn, per la scienza, parla del come l’emergere di «un problema normale, cioè un problema che dovrebbe essere risolvibile per mezzo di regole e procedimenti noti, resiste al reiterato assalto dei membri del gruppo entro la cui competenza viene a cadere. In altre circostanze, uno strumento dell’apparato della ricerca, progettato e costruito per gli scopi della ricerca normale, non riesce a funzionare nella maniera aspettata, rivelando una anomalia che, nonostante i ripetuti sforzi, non può venire ridotta a conformarsi all’aspettativa professionale. In questi ed in altri modi ancora, la scienza normale va a finire ripetutamente fuori strada. E quando ciò accade – quando cioè la professione non può più trascurare anomalie che sovvertono l’esistente tradizione della pratica scientifica – allora iniziano quelle indagini straordinarie che finiscono col condurre la professione ad abbracciare un nuovo insieme di impegni, i quali verranno a costituire la nuova base della pratica scientifica».

Quanto descritto da Kuhn nel declinare le ragioni per le quali avviene una rivoluzione scientifica, può essere preso ad esempio del modo con cui avviene una rivoluzione della wltanschauung. La vecchia concezione del mondo incontra problemi (dal greco próblêma -matos ‘(questione) proposta’) che rappresentano delle anomalie e che con il tempo finiscono per mettere in discussione le basi stesse di questa concezione del mondo.

Quello che voglio dire è che sta accadendo una di queste rivoluzioni, e che a cambiare è la concezione stessa che abbiamo della vita. Le conoscenze della scienza, le implicazione della globalizzazione, le opportunità tecnologiche, e altre cose ancora, hanno fatto emergere domande che la vecchia concezione del mondo, che fino a poco tempo fa aveva fornito le regole e i procedimenti adatti a rispondere ad altre domande di senso, non è in grado di soddisfare, e su queste va in crisi. Ecco nascere, allora, una nuova weltanschauung che sa rispondere alle nuove domande di senso, che fornisce regole e procedimenti entro cui collocare le cose del mondo.

È una rivoluzione perché rappresenta un cambiamento di prospettiva. Il nostro tempo ci pone domande a cui la vecchia weltanschauung non sa rispondere. Chi vive nella vecchia concezione del mondo si sforza di usare gli strumenti che questa gli dà per venire a capo del problema, ma così facendo non fa che metterne in luce l’inadeguatezza. Solo chi è abbastanza libero dalla vecchia visione, così da sapersene distaccare, può effettuare quella rivoluzione, quel cambiamento di prospettiva, che pone il problema e la sua soluzione sotto una nuova luce.

Costui, colui che sa liberarsi dalla vecchia weltanschauung, è deriso perché dice cose che “non hanno senso”, e più ancora, viene considerato pericoloso, perché con le sue affermazioni mette in discussione le fondamenta di quella che fino a quel momento ha rappresentato la verità. Per chi vive nella vecchia weltanschauung accettare tutto ciò significa, di riflesso, ammettere che la propria costruzione non si regge, che ciò per cui si è lavorato per una vita intera, sta cadendo a pezzi. Purtroppo è l’amaro destino di che vive la fine di una concezione del mondo, come è destino l’incertezza, per chi vive la nascita di una nuova weltanschauung.

Certo, ciò che c’è dà sicurezza, dà serenità; ciò che ha da venire dà incertezza e tremore. Ma non siamo nel tempo di chi percorre la via sapendo dove essa porta e a quali mete conduce; siamo nel tempo di chi ha compreso che la strada fin qui percorsa ha aperto nuovi orizzonti, ma ha anche compreso che a questi nuovi orizzonti essa non conduce.

«Se in me c’è quel piacere di ricerca che spinge la vela verso terre non ancora scoperte, se nel mio piacere c’è un piacere di navigante: se mai gridai giubilante: ‘la costa scomparve’ – ecco anche la mia ultima catena è caduta – il senza-fine mugghia intorno a me, laggiù lontano splende per me lo spazio e il tempo, orsù! Coraggio! Vecchio cuore!» (F. Nietzsche, Also Sprach Zarathustra)