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Interloquire

11 Dicembre 2010 Nessun commento

In futuri post affronterò il tema del sofismo e di come veniamo quotidianamente condotti a non cogliere le contraddizioni di cui sono imbevuti i discorsi che la TV e i giornali ci propongono. Per oggi mi accontento di fare chiarezza su un verbo al quale si cerca di cambiare il significato:

INTERLOQUIRE
<in-ter-lo-quì-re> v.intr. (interloquìsco, interloquìsci, ecc.; aus. avere)
1. Intervenire in una conversazione o in un discorso, in modo più o meno opportuno (anche con la prep. in): i. a sproposito; i. in una discussione; con la prep. con: continuava a i. con il relatore

  • Esprimere il proprio parere, mettere bocca (con la prep. su): interloquisce su tutto!
  • non com. Prendere parte come interlocutore a un dialogo.

2. arc. Pronunciare sentenza interlocutoria.
Dal lat. interlõqui, der. di loqui ‘parlare’, col pref. inter- | sec. XVIII

DEVOTO-OLI 2008

Esprimere il proprio parere, mettere bocca su qualcosa. È l’azione di chi si intromette in una conversazione, l’atto di chi si mette in mezzo ad un discorso (inter-loqui). Il verbo non indica che la posizione o la scelta si adeguino al volere di chi si è messo nel discorso, ma semplicemente che costui si mette in mezzo, appunto interloquisce. Sinonimi sono infatti intervenire, interrompere, intromettersi. Diversamente, volendo intendere una azione più volta ad indurre specifiche scelte, sarebbe stato opportuno usare il verbo colludere, sinonimi del quale sono invece accordarsi, complottare, macchinare, intendersi.

Mi dilungo in questo chiarimento dopo aver sentito più volte nelle scorse settimane diversi esponenti della Lega Nord, in primis il Ministro dell’interno Roberto Maroni, ma poi altri, cercare di smentire il racconto di Roberto Saviano sulla presenza della ‘Ndràngheta in Lombardia, fatta a “Vieni via con me”, per l’uso, a loro parere diffamatorio, che lo scrittore ha fatto del termine interloquire.

Anzitutto chiariamo perché all’inizio ho parlato di sofismi. Con sofisma si fa riferimento ad un’argomentazione capziosa e fallace, apparentemente valida ma fondata in realtà su errori logici formali o ambiguità linguistiche. A cosa serve utilizzare i sofismi? A confondere le idee di chi ascolta. A fargli credere d’aver compreso un tema mediante una certa argomentazione, quando invece si è solo prodotta un’argomentazione fallace. Esistono diverse tipologie di sofismi. Il più comune consiste nell’introdurre nel discorso un sillogismo solo apparentemente corretto. Si tratta della fallacia così detta del conseguente, che si verifica supponendo che ciò che è stato ammesso in via condizionale si converta. Ad esempio: «Se X ha la febbre, allora X è caldo, dunque se x è caldo allora x ha la febbre». Nel nostro caso: «Se X dice cose false è falso, dunque se X è falso allora le cose che X dice sono false». La febbre è una risposta fisiologica dell’organismo a stimoli endogeni o esogeni caratterizzata dall’innalzamento della temperatura corporea; l’essere caldi è una caratteristica della febbre, ma la febbre non è una caratteristica dell’essere caldi. Se un termosifone è caldo non diremmo che ha la febbre. Una persona è ritenuta falsa in ragione del raccontare fatti che non sono avvenuti, ma un fatto corrisponde al vero in ragione del suo essere avvenuto, non del suo essere raccontato da X o da Y. Noi sappiamo dell’esistenza di Giulio Cesare per il fatto d’averlo letto su qualche libro, ma l’essere esistito di Giulio Cesare non dipende dalla credibilità del libro.

Di questo meccanismo avevamo fatto cenno in “La moderna incarnazione del terrore staliniano“.  È la tecnica, così detta diffamatoria, che abbiamo visto utilizzata in casi come quello del giudice Mesiano, del – per questo ex – direttore del quotidiano Avvenire Dino Boffo (vedi), del tentativo fatto con Gianfranco Fini (vedi). Il metodo consiste nel rendere poco credibile chi formula l’accusa. Si tratta in pratica di quella strategia che si utilizza nel momento in cui, accusati di un fatto grave, anziché difendere la propria dignità provando di non aver commesso quel fatto, si danneggia la dignità di chi accusa. In questo modo si fa credere che l’accusa sia infondata, perché a pronunciarla sarebbe una persona della quale non ci si dovrebbe fidare. Non si prova d’essere innocenti, ma che l’accusatore è poco credibile. L’errore logico sta nel far confusione tra verità di un fatto e affidabilità di chi lo racconta, che come abbiamo visto in precedenza non si possono correlare. Per il senso comune l’accusa è infatti credibile nella misura in cui a pronunciarla è una persona degna di rispetto. Sono molti i fattori che concorrono a dare o togliere rispetto: l’età, l’eloquenza, i soldi, il vestire, il proprio passato, la propria famiglia, la classe a cui si appartiene, i luoghi che si frequentano, le persone che si frequentano. E sufficiente mettere in discussione uno o più di questi fattori per poter sostenere l’inaffidabilità di una persona. Ciò ci induce in un errore logico molto comune, e proprio per questo subdolo.

Dato che Roberto Saviano è difficilmente attaccabile sul piano della credibilità – vive segregato con la sua scorta, è perseguitato dai boss di Casal di Principe, è una persona relativamente giovane a cui molti hanno dato e danno credito – l’utilizzo del metodo diffamatorio risulta, soprattutto nei confronti di una vasta platea come quella che seguiva il programma Vieni via con me sostanzialmente inefficace, anzi rischiava di diventare controproducente. Screditarlo sul piano personale – come tra l’altro molti hanno tentato – rischiava di farlo apparire ancor più vittima, soprattutto se a farlo era quello Stato stesso che gli fornisce la scorta. Anche in questo caso il sillogismo è semplice: se lo Stato da la scorta a Saviano vuol dire che Saviano è in pericolo, dunque se Saviano è in pericolo, vuol dire che ciò che dice è vero. In pratica la gente tende a dare più credito a Saviano che rischia la propria vita che alla politica che, nel sentire comune, è facile invece alla collusione.

Vista la difficoltà ad attaccare Roberto Saviano sul piano della credibilità, allora lo si è attaccato sul contenuto. Anche in questo caso, però, l’argomentazione di Saviano non è stata contrastata nei fatti, ma nella forma. Il meccanismo è sempre lo stesso: se non è possibile smentire un argomento, basta buttar sul piatto una qualunque ragione di dubbio; che il dubbio non sia in alcuna relazione con l’argomento trattato non importa. L’obiettivo infatti è comunicare che c’è qualcosa che non va, che quindi non ci si deve fidare.

Indubbiamente la tecnica è più sottile di quella della diffamazione. Appellarsi all’uso di un termine, ritenuto inappropriato, ha la funzione di insinuare in chi ascolta il dubbio che qualcosa non vada, che ci sia dell’inesatto. Poco importa, come abbiamo già visto, che ciò non sia vero o che non c’entri affatto. Il tarlo del dubbio è già scoccato, e ciò basta, perché lascia uno spiraglio alle nostre gaie allucinazioni sulla realtà. Ci lascia liberi di sognare che la mafia sia una cosa da terroni, da incivili, che al nord le cose vanno bene, insomma, che non ci sono problemi. A che logica risponde infatti l’affermazione degli esponenti della Lega Nord quando sostengono che sì, la mafia fa affari al nord, ma dire che “interloquisce con la Lega” è una argomentazione inaccettabile? Se interloquisce significa, come abbiamo visto, intervenire in una conversazione? Vuole dirci che non dobbiamo allarmarci, che la mafia, se c’è, è sotto controllo, che si sono arrestati centinaia di latitanti, che possiamo stare sereni, che va tutto bene, che lo stato sta vincendo. Ma è vero?

La mafia è una cancrena per la democrazia, per il vivere civile, cioè per tutto ciò che facciamo ogni giorno. Impoverisce la nostra comunità, distrugge l’economia, toglie la libertà, uccide le persone. È un male ben più grande, tangibile e vicino di quanto lo sia il terrorismo internazionale, che tanto ci spaventa. E non dobbiamo andare in Afganistan a cercarlo, perché sta fra noi, fa affari con noi. Il fatto che non ne abbiamo la chiara percezione, come può avvenire in altre regioni, non significa che non c’è, anzi, ci rende maggiormente vulnerabili. Con l’11 settembre e con gli attentati degli anni successivi in Europa abbiamo scopetto che il terrorismo e il fondamentalismo non sono cose lontane. Abbiamo aperto gli occhi sul fatto che la globalizzazione ha portato in casa nostra i conflitti che consideravamo distanti ed estranei.

E allora perché per il terrorismo i governi fomentano l’allarmismo, mentre per la mafia non lo fanno, anzi, si indignano se qualcuno dice che la mafia c’è e prospera?

Lo ripeto: la mafia è una minaccia ben più grave, certa, concreta e vicina del terrorismo che pur non nego, ed è ben lungi dall’essere sconfitta e sradicata. È una grande azienda che fa affari in molteplici settori, e che sopravvive e prospera grazie a questi affari, non certo per la preparazione manageriale dei suoi boss. Sradicarla significa quindi metterla fuori mercato. Da che mondo è mondo nessuna azienda fallisce se perde l’amministratore delegato. Quindi è vero che arrestiamo tanti boss, ma non ne consegue che la mafia arretra, deve solo trovare un nuovo AD.

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