Vecchi

Non ci sentiamo da un bel po’ di tempo, ma per fortuna il cervello ha continuato a macinare. Mi piacerebbe riprendere il discorso e riparto da un tema trattato in un pecedente post. CI ervamo lasciati al tempo con un discorso sulle conseguenze dell’accidentalità dell’esperienza umana. Dicevamo di come per l’uomo del nostro tempo la domanda sul senso e sul fine del proprio esistere abbia una valenza puramente soggettiva. Tutto ciò, come visto in “Speranza”, fa dell’esistere odierno una esperienza solitaria, senza una storia, ma anche senza seguito. Faccio un passo avanti.
Quanto detto potrebbe indurre a pensare che l’uomo contemporaneo sia attraversato da un senso di profondo sconforto e pessimismo. L’immagine è quella di soggetti errabondi, impossibilitati dalla natura stessa del loro viaggio ad avere compagni; costretti a percorrere sentieri vergini; senza la speranza di poter lasciare alcuna eredità del proprio peregrinare, né tanto meno del proprio approdo.
Viene spontaneo, di fronte ad una tale descrizione, essere colti dalla malinconia e dallo scoramento, ma non sono certo questi i sentimenti che attraversano l’uomo contemporaneo. Egli non vive la sua solitudine nello sconforto, ma nel più totale incanto; il suo isolamento, anziché motivo di depressione, è ragione di esaltazione. Se infatti l’uomo non appartiene più ad una storia, non ha più alcuna meta che lo trascende, non ha nulla da tramandare, significa che egli stesso, come singolo, è l’attore unico dell’unico atto, dell’unica storia. È l’egocentrismo, testualmente parlando, assoluto. Se non vi è una “grande” storia in cui trovare il proprio posto, allora la propria storia diventa l’unica. Se non vi è una meta comune, il mio percorso, la mia meta, il mio fine divengono l’unico fine. Se non vi è speranza di un valore condiviso che accomuni la nostra esperienza, allora il valore che ognuno da al proprio esistere diviene l’unico valore a cui attenersi.
Queste mie analisi non devono essere prese in termini moralistici. La mia non è una accusa all’egocentrismo e al soggettivismo imperanti. Se essi esistono e si manifestano, è evidente che sono accompagnati da una ragione, ed è quella che mi interessa sviscerare. Il fatto che la loro esasperazione metta a rischio la convivenza umana, la sopravvivenza della specie e lo stesso ecosistema in cui viviamo, mi pare talmente banale da non doverci perder tempo (1). Ciò, ribadisco, non significa che io ne faccia una questione morale, cioè non credo che la spiegazione, e quindi la soluzione, di queste questioni abbia a che fare con lo smarrimento ed il conseguente recupero di una qualche morale. Semmai ci si dovrebbe chiedere quale etica possiamo sperare da un uomo che è solo. Allora, prima di fare la morale, io mi propongo di andare un po’ a fondo di questo uomo; prima di chiedergli scelte morali, intendo interrogarmi di quale etica egli possa essere capace.
Riprendo allora le mie speculazioni sull’uomo contemporaneo. Vi descrivo alcuni segni di questo egocentrismo di cui andavo accennando poc’anzi. Per farlo, spero che ciò non induca all’abbandono di questa lettura, dovrò chiamare in causa il tema che io ritengo discriminante per il nostro ragionare: il tema ella morte.
VecchirttoÈ infatti nei confronti della morte che la presa di coscienza della propria accidentalità assume i tratti egocentrici a cui ho accennato. La morte è misura e limite della vita. È la cosa di cui possiamo andare più certi, anche se non ne possiamo conoscere i tempi e i termini esatti. È paradosso biologico, dato che esiste per dare spazio al susseguirsi della vita. È paradosso umano perché è nella sua finitezza che l’uomo prende coscienza del proprio esistere. È paradosso per l’uomo contemporaneo che l’allontana proprio perché è l’unica certezza a cui può aspirare.
La morte non è mai stata auspicabile; per quanto le religioni e i miti abbiano cercato di renderla meno buia, arrivando in alcuni casi a vederla come momento di passaggio, essa non ha mai smesso di far paura. Ciò non significa che non venisse compresa in un senso.
Se la propria vita era vista all’interno di una storia, di un cammino più grandi, la nascita e la morte diventavano i meccanismi attraverso cui questo percorso si spiegava. All’interno di una prospettiva di questo tipo, diventava logico attraversare la propria vita come una parabola. Certo, non si sapeva l’ora della propria fine, ma forse proprio per questo diventava essenziale assolvere il proprio compito, fare la propria parte il prima possibile. Farsi trovare pronti dalla morte significava arrivarci dopo aver compiuto il proprio dovere. Essa era sempre presente, come uno spettro, pronta dietro l’angolo, per questo non c’era tempo da perdere, bisognava dare senso a quel poco tempo che si aveva. Bastava una influenza, una infezione e il tempo scadeva.
Oggi non è più così. Per mezzo della medicina e delle tecniche che la scienza mette a disposizione, la morte non è più dietro l’angolo, pronta a colpire, ma, anche se lo è, abbiamo i mezzi e gli strumenti per fermarla. O almeno ci dilettiamo nel pensarlo, dato che sia il fatto che la medicina e le scienze siano all’origine dell’innalzamento della vita media delle persone, sia il fatto che la morte sia procrastinabile all’infinito sono entrambe delle favole (2). Vero o meno che sia il contributo della medicina e delle scienze nel curare, la diffusa idea che esse siano in grado di guarire le malattie ha rivoluzionato l’approccio dell’uomo alla morte. Essa, da compagna di viaggio, si è trasformata in imbarazzante presenza da esorcizzare e allontanare, possibilmente da debellare.
Ora a molti questa rivoluzione potrà apparire positiva; potrà ritenere un bene quanto viene fatto e speso nell’inseguire l’idea di scongiurare la morte; ad ognuno il proprio giudizio. Ciò che ci preme in questo scritto è vedere come la rivoluzionata idea della morte si fonda con la visione accidentale della vita producendo un tipo di uomo che non s’era mai visto prima. Lo chiamerò per convenzione ‘l’ottantenne’, ma sia ben chiaro che egli ne è solo il massimo esempio, in questa descrizione ci cadiamo tutti. Perché prendo ad esempio l’ottantenne? Perché, a mio avviso, è nei discorsi e negli atteggiamenti di molti ottantenni e giù a seguire, che si scorgono gli effetti del connubio di cui sopra. Mai sentito espressioni come “La vecchiaia è una brutta malattia”? Ve ne elenco altre: “terza età”, “sentirsi giovanili”, “essere ancora in gamba”, “scoprire una seconda vita”.
Queste frasi sono indice di una incapacità (comprensibilissima ma pur sempre incapacità) di fare i conti con il senso del proprio esistere. Raccontano di persone che sono vecchie e che non sanno accettare il fatto di esserlo e si nascondono dietro parole come anziano, terza età, perché non accettano l’essere vecchi, la considerano invece una malattia, una sorta di ingiustizia, di sfiga che li ha colpiti. Vivono la vecchiaia, la perdita di tono muscolare, di resistenza fisica, di freschezza mentale, come un fatto anomalo, un malanno; quelli che sono i segnali dello stato di salute nell’età senile, divengono i sintomi di una malattia degenerativa chiamata appunto vecchiaia.

(1) Questo, lo so, non toglie che ci siano dei farfalloni, non so se in buona o cattiva fede, che vanno predicando l’inesistenza di problemi come lo sfaldamento dei legami sociali e comunitari, il sovraffollamento umano del pianeta, l’esaurimento delle risorse naturali, ecc.
(2) Per chi facesse fatica ad accettare queste mie considerazioni o per chi avesse intenzione di approfondire segnalo Nemesi medica di Ivan Illich e Che cosa vuol dire morire a cura di Daniela Monti.

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